Una pastorale sanitaria rivolta al territorio

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 Ricerca a cura di Emilio Esposito  Teologo

 Formatore professionista Area delle professioni Sociali ( Registro  A.I.F.)

Counselor Sistemico Relazionale Familiare Esperto in Logoterapia

 

Una pastorale organica della salute richiede anche un collegamento con la pastorale territoriale, della diocesi e delle singole parrocchie. Nell’attuale momento culturale si pone primariamente un primo obiettivo pastorale: la sofferenza deve ridiventare significativa, deve cioè ritornare ad avere un suo ruolo, un suo senso, nella vita dell’uomo. A partire dalla famiglia, dalla scuola, dalla parrocchia occorre un’azione educativa e catechetica, che veda la sofferenza non come una disgrazia ma come un tempo da vivere, anche se questo può provare drammaticamente la persona e renderla più bisognosa di aiuto. Occorre riaffermare il valore della prova, della sofferenza, della fatica, dell’impegno che accompagna il valore sacro della vita.

In conclusione, al fine di una coerente risposta alle problematiche che si sono affrontate, si possono indicare alcune linee formative:

 

Teologia della sofferenza

Nella tradizione della Chiesa il significato della sofferenza è stato addebitato, nel tempo, alle conseguenze del peccato originale o come condizione per entrare nella “vita eterna”, separando quindi, in un certo senso, la partecipazione alle sofferenze di Cristo da vivere nel corso della vita terrena dalla partecipazione alla sua gloria nella vita futura. Altre volte si è interpretata la sofferenza come opportunità voluta o permessa da Dio per una purificazione o per l’espiazione di colpe proprie o altrui. Oggi però una lettura teologica più attenta, anche recependo le provocazioni culturali del pensiero contemporaneo, fa emergere la necessità di orientare il senso della sofferenza umana nell’ambito della naturale finitudine creaturale.

 

Sacramentaria

La partecipazione all’evento integrale di Cristo e la realizzazione del senso pieno della salute spirituale avviene nell’incontro col Cristo-Medico nei segni sacramentali della Chiesa. In particolare, l’Unzione degli infermi e il Viatico esprimono l’unità profonda tra condizione terrena, malattia, redenzione e grazia salvifica e costituiscono l’aiuto sacramentale per il raggiungimento di quella possibile guarigione intesa nel saper gestire la propria situazione di sofferenza senza essere schiacciati dal dolore umano.

 

Bioetica

Il progresso scientifico delle scienze biomediche e delle loro applicazioni terapeutiche solleva ineludibili questioni bioetiche. E’ importante allora l’acquisizione di determinate conoscenze a partire dai problemi che possono intervenire nel fine-vita (accanimento terapeutico, eutanasia, sedazione terminale, sospensione dei trattamenti, ecc.) e all’inizio della vita (procreazione artificiale, genetica, ecc.) che sono peraltro problemi che interessano la pastorale nel suo senso più ampio. Si tratta di sperimentare il metodo, che è tipico della bioetica, della interdisciplinarietà: si tratta di far incontrare di fronte a questi fatti e problemi umani di grande rilievo l’apporto delle scienze sperimentali, della dimensione teologica e antropologica, della riflessione etica e giuridica.

Culture religiose

L’istituzione assistenziale, oggi, costituisce uno dei luoghi privilegiati d’incontro tra persone appartenenti a diverse culture e tradizioni religiose, che vivono la realtà della vulnerabilità. Un incontro che da parte di un operatore pastorale, presuppone la conoscenza di queste convinzioni di fede, di qui la necessità di leggere le tradizioni religiose nella prospettiva di quelle domande sul senso della vita, della sofferenza, della morte e della prospettiva escatologica che possono interpellare un credente qualunque sia la sua fede religiosa.

Comunicazione e relazione di aiuto: il Counselling pastorale

Il counselling, o counselling come è definito in Inghilterra, è proteso a colmare il disagio della persona umana e a sostenerla nella sua vicenda personale e interpersonale, cercando di rintracciare quelle risorse interiori della persona sofferente da orientare, sostenere e sviluppare con una modalità attraverso la quale gli operatori pastorali si fanno veicolo dell’Amore di Cristo per cercare di rispondere ai problemi personali e familiari che una situazione di sofferenza può sollevare. E’ un processo religioso attraverso il quale si può sperimentare personalmente, nell’iter formativo, Dio e il potere della sua guarigione.

 

Elementi di psicologia del malato

L’utilizzo delle scienze umane, in particolare delle tecniche psicologiche diventa mezzo e strumento per incontrare la persona del malato. In termini spirituali si può dire che la relazione di aiuto è un incontro tra anime in un percorso cristiano di fede che vede applicati i principi appresi alla scuola di teologia ma anche l’acquisizione di informazioni psicologiche e competenze relazionali. Utili per un ministero, di fronte anche al cambiamento del tipo di malattie cui si sta assistendo: le patologie di tipo acuto come causa di malattia e di morte stanno dando spazio a patologie di tipo cronico come principali fattori di morte e di disabilità.

 

Tirocinio

Un tirocinio guidato da un supervisore, improntato sulla riflessione sugli incontri pastorali, illuminato dai contributi introspettivi propri, del supervisore e del ristretto gruppo di tirocinanti, è finalizzato all’integrazione delle attitudini umane e spirituali tese a rendere sempre più efficace e creativa la testimonianza pastorale. I contenuti etici e teologici richiedono una metodologia per come trasferire questi contenuti nella prassi pastorale.

 

Accompagnamento pastorale nelle diverse situazioni

La cura pastorale per i malati e i sofferenti fa parte della missione terrena di Gesù e fa parte della missione della Chiesa. La sofferenza può costituire una sfida per il mondo religioso del malato e dei suoi congiunti. L’assistenza pastorale può aiutare il malato e la sua famiglia a riparare o ricostruire un rapporto con Dio che li aiuti nel cammino di ricerca di un significato che li aiuti a gestire la situazione. Le diverse fasi o passaggi della vita, poi, sono indicati come tempi particolarmente forti per realizzare una evangelizzazione e una catechesi che rispecchi le attese delle persone. Questi tempi sono la nascita e l’infanzia, la malattia e la morte, l’invecchiamento e la vecchiaia. Naturalmente ogni passaggio ha bisogni e preoccupazioni proprie particolarmente evidenti in una situazione di sofferenza, così che la pastorale richiede competenze particolari. Una pastorale che deve interessare gli stessi operatori sanitari e i volontari. L’umanizzazione di un ospedale, di un reparto, di un servizio dipende in primis proprio dagli atteggiamenti degli operatori sanitari, ricordando che questi ultimi costituiscono anche gli agenti primari delle questioni etiche.

Nozioni di patologia clinica

L’atteggiamento personale verso la propria malattia e la propria morte è condizionato dall’età, dal sesso, ma anche dal tipo di patologia. Lo stesso approccio con la persona malata è condizionato anche da una qualche conoscenza della terapia (mutilazioni, esiti di interventi chirurgici, chemioterapia, ecc.) che possono influenzare, almeno nei primi tempi, lo stato psicologico per l’imbarazzo della persona nel trovarsi in una situazione che per particolari aspetti può condizionare i rapporti con gli altri. La conoscenza delle patologie più comuni e la loro terapia possono favorire l’avvicinamento di una persona che queste hanno reso in una situazione di particolare suscettibilità.

Economia e organizzazione sanitaria

La conoscenza dell’organizzazione e della “filosofia assistenziale” dell’istituzione in cui si opera, e delle modifiche nel tempo, può aiutarne una comprensione più ampia, considerato che non è semplicemente un luogo sociologico dove attuare una propria capacità lavorativa o assistenziale, ma un vero “luogo teologico” dove nel costante incontro con Cristo, che in esso attua una particolare presenza sacramentale, si fa piena la propria identità cristiana.

Documenti di Pastorale della salute

L’aggiornamento continuo per quanto riguarda gli studi sulla pastorale della salute, i documenti e le dichiarazioni del Magistero, possono costituire un utile aggiornamento teologico e pratico nell’indirizzo della propria attività pastorale.

Queste Indicazioni, se pur espresse nell’ambito dei limiti di questo intervento, possono ispirare, almeno in parte, come attestano le prossime iniziative formative, l’attività dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della salute.

Volendo semplificare le fasi del processo della RPA, possiamo ridurle a tre: l’accoglienza, il discernimento e l’azione.

  • La fase dell’Accoglienza

Obiettivo di questa prima fase è innanzitutto creare un rapporto relazionale, interpersonale autentico, in cui la persona malata e bisognosa di aiuto si possa sentire accolta, presa in considerazione, compresa, rispettata, amata. Il consigliere pastorale veicola l’accoglienza alla persona incontrata attraverso un insieme di atteggiamenti e di abilità, di cui i più importanti sono i seguenti: l’attenzione, la comprensione empatica, la considerazione positiva, l’autenticità, la concretezza. Esaminiamoli.

− Se l’attenzione si manifesta attraverso un quadro ambientale accogliente, – (qualora la persona si recasse dal consigliere), – la presentazione da parte del consigliere, una postura fisica che rispetti le giuste distanze (è ottimale la distanza tra i 90 e i 120 cm, evitando di guardare i malati dall’alto in basso, di sedersi sui loro letti, di non creare comunque sia un’eccessiva distanza da loro), l’espressione facciale appropriata (non esprimente senso di meraviglia o disgusto per gli eventuali cattivi odori), l’osservazione attenta (degli oggetti sul comodino, del loro modo di esprimersi, del loro livello di energia: positivi o depressi), essa trova, però, la sua espressione più efficace nell’ascolto. L’importanza fondamentale dell’ascolto nella RPA è sottolineata da ogni scuola psicologica e pastorale oltre che dal comune sentire della gente. Pietra d’angolo su cui si basano tutte le risposte generatrici di aiuto, l’ascolto costituisce, secondo la terminologia dell’analisi transazionale, una delle ‘carezze’ più efficaci. Quando un malato si sente ascoltato, infatti, sa di valere agli occhi dell’interlocutore. Atteggiamento di difficile attuazione, eppure possibile frutto di una rigorosa personale disciplina, l’ascolto domanda di centrarsi sull’altro, dimenticando se stessi con il proprio variegato ed esigente mondo sostanziato di bisogni, desideri e stati emotivi. In questo senso, Colombero parla dell’ascolto come di un “atto spirituale”11, che è impossibile se “l’interiorità è assente; il vero ascolto è possibile solo nel silenzio di tutto il resto”12. Senza un apprendimento disciplinato è difficile raggiungere una capacità di ascolto attivo, che colga non solo i contenuti ma anche i sentimenti espressi dai malati (es.: “Che ora è?” “Dormi, la notte è ancora lunga!” Il senso vero della frase è che gli è difficile dormire o vuole assicurarsi di una presenza!).

Infatti, quando quest’ultimi, soprattutto in situazione di gravi infermità, esprimono emozioni pesanti, vicende drammatiche o noiose, è facile che il consigliere pastorale realizzi solo un ascolto non attivo e si difenda ricorrendo o ad un ping-pong verbale, che non impegna ad un’apertura profonda o metta in atto una sottile attività selettiva, che elimina ciò che non coincide con le proprie attese o capacità di recezione, ponendo attenzione più ai contenuti cognitivi che a quelli emotivi, più ai sentimenti positivi che a quelli negativi.

− L’empatia è la capacità di comprendere ciò che l’infermo sta vivendo (comprensione empatica) e di comunicargli anche tale comprensione (risposta-comunicazione empatica). L’atteggiamento empatico comporta, in primo luogo, la capacità di mettersi dal punto di vista del malato, ponendo tra parentesi, anche se solo temporaneamente, i propri sentimenti, opinioni, credenze, gusti. In secondo luogo, l’empatia comporta che si eviti di cadere nell’atteggiamento di simpatia, che consiste nel fare propri i sentimenti dell’infermo, imbrigliandosi nelle sue dinamiche.

11 G. COLOMBERO, Dalle parole al dialogo, Paoline, Milano 1986, p. 207.

12 Ibidem.

Il consigliere empatico, invece, comprende il vissuto del malato come se fosse suo, mantenendo quindi una sufficiente distanza affettiva, che è necessaria per garantire oggettività alla sua valutazione della situazione. La pratica dell’empatia, infine, è possibile solo se il consigliere pastorale accetta di essere vulnerabile, cioè suscettibile di ‘venire ferito’ dal vissuto del malato. “Nessuno può assistere chicchessia, senza partecipare con tutto se stesso alla situazione dolorosa, senza correre il rischio di ferirsi…”13. La disponibilità a dare la vita per gli altri (cfr. 1Gv 3, 16), esponendosi al rischio d’essere toccati dalle loro ferite, deve tuttavia essere costantemente accompagnata dall’attenzione a prevenire il logorìo psicologico o burnout, inevitabile quando il coinvolgimento emotivo nella situazione del malato è eccessivo o quando anche il consigliere non compie un lavoro sufficiente di prevenzione 14.

Come abbiam detto, l’empatia consta della comprensione del vissuto della persona malata e della comunicazione a quest’ultimo di tale comprensione. La risposta empatica è, quindi, parte essenziale di tale atteggiamento. Ciò che distingue questa risposta dalle molte altre, che vengono abitualmente utilizzate, è costituito dal fatto che essa non si sofferma a giudicare quanto è stato comunicato dall’infermo, non opera interpretazioni, non si limita a offrire supporto, non indulge a investigazioni, non offre soluzioni immediate, ma, centrandosi sul tu del malato, gli ‘rispecchia’ quanto egli ha comunicato in termini, sia di concetti-contenuti, sia di sentimenti. In tal modo, ‘riformulando’ al malato i contenuti e i sentimenti, ossia ripetendogli con parole diverse i concetti e i sentimenti da lui espressi, il consigliere pastorale gli veicola tutta la propria comprensione ed aiuta il malato ad analizzare meglio un suo problema (Es.: quando il malato chiede: “Cosa posso fare in questo caso?”, si potrà rispondere: “cosa pensa che sarebbe meglio fare?”).

− Con l’atteggiamento della considerazione positiva, l’accoglienza raggiunge la ‘profondità dell’essere’ della persona malata. Il sentirsi considerati come individui degni di valore è un bisogno fondamentale di ogni persona umana; bisogno avvertito più acutamente da coloro che si trovano in situazioni caratterizzate da malattie, crisi e conflitti. E la considerazione positiva prende vari nomi: accettazione incondizionata, per la quale il malato è una persona con un valore-dignità, che è indipendente dalla sua malattia; rispetto e stima per le sue eventuali idee diverse dalle mie; fiducia, dimostrandogli di credere in lui, nelle sue risorse e capacità di poter affrontare e risolvere i problemi; calore umano, veicolato in modo verbale e non, mediante il tono di voce, la mimica del volto, i gesti15. Ora, la pratica del rapporto interpersonale nella RPA mette quotidianamente a confronto l’operatore con i propri limiti nell’area della considerazione positiva: difatti, il consigliere pastorale, che tende con facilità a giudicare e a svalutare l’interlocutore, si dimostra lontano dall’accettazione incondizionata, così come manca di stima e di fiducia verso i malati l’operatore pastorale, che intraprende i suoi incontri guidato da un atteggiamento manipolatorio: volendo “vincere”, egli tende delle “trappole” ai malati, affinché rispondano ai suoi obiettivi (Confessione, Comunione, Unzione degli infermi, ecc.). Cade nella mancanza di rispetto, il consigliere incapace di mantenere la parola data e la puntualità o incapace di accogliere con gentilezza e di ascoltare con empatia. Si mostrano, infine, inadeguati quei consiglieri, ai quali riesce difficile evitare la troppa distanza o l’eccessiva effusione di affetto nei confronti dei malati. − L’autenticità è la capacità di essere se stessi nella relazione con le persone inferme.

Chiamato anche genuinità o congruenza, tale atteggiamento implica una coerenza tra ciò che il consigliere pastorale pensa o prova e ciò che comunica alla persona malata. “L’autenticità si realizza a un duplice livello: intrapersonale, quando il consigliere pastorale lascia emergere alla coscienza, ed accetta come proprio, qualsiasi sentimento, attuando così un’integrazione tra esperienza e coscienza; interpersonale, quando uno è disposto e libero di comunicare al malato i propri stati d’animo, compiendo così un’integrazione tra esperienza e comunicazione”16.

13 H. NOUWEN, Il guaritore ferito. Il ministero nella società contemporanea, Queriniana, Brescia 1982, p. 68.

14 In merito all’argomento, si confronti l’agile contributo di L. SANDRIN, Aiutare senza bruciarsi. Come superare il burnout nelle professioni di aiuto, Paoline, Milano 2004.

15 Cfr. H. FRANTA, Atteggiamenti dell’educatore, LAS, Roma 1988, pp. 86 ssg.

16 SZENTMÀRTONI, Introduzione alla…, op. cit., pp. 75-76.

Certamente, non è necessario che il consigliere riveli tutti i propri sentimenti, compresi quelli negativi; infatti, la scelta dei contenuti da comunicare al malato va fatta sulla base di svariati fattori: la sua capacità di recezione, l’opportunità del momento, i vantaggi o svantaggi che potrebbero derivarne. La presenza d’inautenticità nel colloquio pastorale si manifesta, spesso, nell’incoerenza tra linguaggio verbale e non verbale (Es.: gli dico verbalmente che ci tengo a lui e, poi, con gli atteggiamenti gli dimostro il contrario), creando, così, un clima di diffidenza, disagio, incapacità di ascolto e di partecipazione. − Praticando l’abilità della concretezza, il consigliere pastorale aiuta il malato “a esprimere in modo chiaro, specifico e personale le esperienze e i sentimenti e a centrarsi sempre di più su se stesso”17. Varie sono le tecniche attraverso cui si esprime tale abilità. Le principali sono: la focalizzazione, che consiste nel ricondurre il malato, che divaga, a centrarsi su ‘cuore’ della sua comunicazione, personalizzando le proprie affermazioni (Es.: “Mi dici che non ti funziona mai niente”, da trasformare in: “Mi indichi ciò che non va?”); il riassunto, che invita ad essere concreti e specifici, chiedendo al malato di riassumere ciò che ha detto vagamente e a lungo; le domande.

Nell’utilizzare quest’ultimo mezzo è essenziale evitare il rischio di cadere nelle inutili curiosità, preferendo alle domande chiuse, cui si può rispondere solo con il ‘si’ o il ‘no’, quelle aperte che lasciano al malato l’iniziativa di rivelare altri contenuti da lui valutati come più significativi (Es.: Invece di “ti è piaciuto l’incontro di ieri?” chiedere: “Ti piacerebbe parlarmi dell’incontro di ieri?” ).

 

Completiamo il discorso sulla fase dell’accoglienza con alcune osservazioni.

− Nella visione cristiana, Dio è Colui che accoglie incondizionatamente l’uomo, infondendogli fiducia e capacità di auto accettazione. Fare esperienza dell’amore accogliente di Dio è, perciò, indispensabile per situarsi di fronte agli altri con cuore ospitale. Nel manifestare la sua accoglienza ai malati incontrati, il consigliere è chiamato a potenziare la consapevolezza di essere mediatore dell’atteggiamento ospitale del Signore. In questa luce, tutti gli atteggiamenti e le tecniche, da lui utilizzate, acquistano un significato dall’esperienza cristiana, prima ancora che dallo studio delle scienze umane(18). Sia il consigliere pastorale, sia quello psicologico sono chiamati ad essere empatici, autentici, a considerare positivamente i propri malati.

Tuttavia, mentre il secondo lo fa perché è convinto che senza tali atteggiamenti è difficile che si attui il processo terapeutico, il primo è motivato dal fatto che in tali atteggiamenti si rispecchia la relazione di Dio nei confronti dell’uomo. Infatti, la comprensione empatica e l’accettazione incondizionata , presenti nei processi terapeutici, trovano il loro fondamento nell’atteggiamento di Dio, archetipo della relazione interpersonale. Posso, difatti, sentirmi libero di coinvolgermi nel mondo soggettivo di un altro, solo se il mio atteggiamento è inserito in un processo più vasto di comprensione e di accettazione, che mi permette di rendermi cosciente della mia e altrui comprensibilità e accettabilità. È nell’evento Cristo che si sono manifestate l’empatia e l’accettazione incondizionata, presenti in ogni forma significativa di relazione di aiuto. Ne deriva che tutte le espressioni di amore empatico e di accettazione incondizionata diventano una dossologia, una lode a Colui che si è fatto conoscere, condividendo la nostra condizione umana (Fil 2, 6-7) e salvandoci attraverso la sua trascendente accettazione. Se ogni pratica terapeutica, basata sull’empatia e sull’accettazione incondizionata, costituisce un’implicita manifestazione dell’atteggiamento amorevole di Dio verso l’uomo, tale manifestazione, perciò, si esplicita e diventa consapevole nel consigliere pastorale. − I frutti della fase dell’accoglienza si concentrano intorno all’esplorazione del problema vissuto dal malato. Tale esplorazione non si limita a far emergere i contenuti della situazione problematica, ma anche le sue ripercussioni emotive sulla persona che la vive. Uno degli effetti dell’empatia, infatti, consiste nel far emergere i sentimenti che abitano l’interlocutore e che danno una particolare fisionomia ai suoi problemi. Se ben praticate, la considerazione positiva, la comprensione empatica e l’autenticità esercitano un impatto positivo sul malato, portandolo ad una migliore autocomprensione, ad una più positiva auto considerazione e ad un desiderio di essere se stesso in ciò che è e che compie. Ne consegue un approfondimento della relazione tra il consigliere e la persona inferma, che può così facilitare il prosieguo del processo della RPA.

− Al termine della fase dell’accoglienza, il consigliere dev’essere in grado di operare una prima elaborazione della diagnosi pastorale, giungendo, sulla base delle informazioni fornite dal malato, a comprendere la vita di quest’ultimo alla luce di una visione o prospettiva teologico pastorale.

17 B. GIORDANI, La psicologia in funzione pastorale, La Scuola-Antonianum, Brescia-Roma 1981, p. 153.

18 SZENTMÀRTONI, Introduzione alla…, op. cit., p. 74.

6.2. La fase del Discernimento

Se la fase dell’accoglienza ha come scopo di aiutare l’infermo a “girare intorno” alla situazione problematica della sua condizione malata per esplorarla in se stessa e nei suoi riflessi emotivi, la fase del discernimento mira ad aiutarlo a ri-conoscerla, ad accettarla come qualcosa che fa parte della sua vita e di cui deve prendere la responsabilità, a darle un senso e a guardare in quale direzione intende muoversi per poterla ‘integrare’ nella propria esistenza. Durante questa fase, oltre gli atteggiamenti propri del momento dell’accoglienza (attenzione, empatia, considerazione positiva, autenticità, concretezza), il consigliere pastorale è chiamato a praticare: il confronto, l’autorivelazione e l’immediatezza. − Il confronto consiste nel porre il malato di fronte alla situazione problematica, che sta vivendo, in modo che egli ne possa vedere gli aspetti positivi e coerenti e quelli negativi e contraddittori. Esso può essere attuato tra due affermazioni verbali contrastanti (“Mi hai detto che … ora, invece, mi dici che …”), tra un’asserzione verbale e una comunicazione non verbale (“Mi dici che non hai paura degli aghi e ora, invece, stai tremando”), tra teoria e pratica (“Dici che vuoi guarire e, poi, non assumi le medicine!”). Affinché il confronto possa riuscire efficace occorre che si risolva in un’espressione di autentico amore, secondo il motto paolino del fare “la verità nella carità” (Ef 4, 15). Quando, infatti, vengono evitati giudizi e condanne, il malato può cogliere

nell’atteggiamento di confronto del consigliere una presenza amica e una volontà di aiutarlo. Nel Nuovo Testamento sono presenti gli esempi di confronto. Significativi gli atteggiamenti di Cristo verso i farisei e verso i peccatori: ‘duro’ nei confronti dei primi, egli si mostra quasi ‘timido’ con i secondi, limitandosi a richiamarli alla loro responsabilità. Pur essendo difficile da praticare per vari fattori (paura di disapprovazione, timore di “far soffrire”, ecc.), il confronto riveste tuttavia una grande importanza nella RPA. In tal modo, alla dimensione “materna” e ricettiva, costituita dall’empatia, si aggiunge ora quella paterna, senza la quale la prima rischierebbe di rimanere inefficace.

− L’autorivelazione è la disposizione e la libertà, di cui gode il consigliere pastorale, “quando ritiene conveniente e utile comunicare al malato aspetti personali della propria esistenza, come: opinioni, esperienze, situazioni esistenziali, tendenze, sentimenti, ecc. (19). Perché l’autorivelazione contribuisca all’efficacia della RPA, occorre che essa non interrompa il flusso comunicativo della persona malata e tanto meno appesantisca la sua situazione. Al contrario deve contribuire a rafforzare nell’altro la certezza di essere compreso, permettendo al consigliere di chiarire, nel contempo, la propria posizione.

− Attraverso l’atteggiamento dell’immediatezza, l’interlocutore viene aiutato a prendere coscienza del suo modo di vivere la relazione con il consigliere pastorale, in un determinato momento. Quando, per esempio, un malato nella sua conversazione con l’operatore pastorale dice: “nessuno mi capisce”, probabilmente esprime, senza accorgersene, il suo modo di vivere la relazione con lui, in quel dato momento.

Oltre alle tecniche ricordate nella prima fase dell’Accoglienza (rispecchiamento, riformulazione, uso dosato delle domande), i mezzi e le tecniche per favorire il discernimento sono vari.

19 GIORDANI, La psicologia…, op. cit., p. 166.

Tra essi merita di essere sottolineata l’immissione di elementi nuovi nella conversazione, attuata attraverso determinate modalità: l’informazione, chiedendo al malato un feedback, onde verificare se ha compreso, l’appello alle risorse umane e spirituali presenti nella sua persona (determinazione, speranza, ottimismo, pazienza), l’utilizzazione di immagini e di brani tratti dalla Bibbia, il ricorso ad una preghiera, centrata sulla situazione vissuta dall’interlocutore. Tuttavia, nell’immettere elementi nuovi nell’universo della persona malata è necessario evitare sempre, sia il dogmatismo, sia l’atteggiamento predicatorio. Durante la fase del discernimento, il malato vive un combattimento interiore, che è bene identificare. Si tratta, per dirla con le parole della Bibbia, della lotta di Giacobbe con l’angelo, del percorso del chicco di grano, che cade in terra per morire e ricrescere.

E nell’accompagnare il malato, impegnato in tale processo, il consigliere pastorale non può esimersi dal lasciarsi raggiungere, nel profondo dell’essere, dal vissuto del persona malata incontrata, pur evitando un coinvolgimento emotivo che potrebbe nuocere all’efficacia del suo intervento. Con amorosa attenzione, egli dovrà, quindi, saper ascoltare i suoi gemiti, aiutando quest’ultimo a sintonizzarli con il gemito dello Spirito (cfr. Rm 8, 18-27). “Pastore, infatti, è colui che ha l’orecchio fine per cogliere il diapason, la nota appena percettibile dello Spirito che geme, per farla crescere, distinguendola da tutte le altre contraffazioni”20.

6.3. La fase dell’Azione

A poco o a nulla servirebbe l’accompagnamento di quanti si trovano in difficoltà, se tale accompagnamento non approdasse ad un cambiamento del loro modo di essere e di agire, al superamento di una crisi, ad una decisione morale, ad un passo in avanti nella crescita umana e spirituale. I risultati della RPA sono dipendenti da numerose variabili: la frequenza degli incontri, la natura dei problemi, la personalità dell’interlocutore, senza mai dimenticare l’azione dello Spirito! Ora questa fase dell’azione non inizia, di certo, improvvisamente: infatti, già durante la fase dell’accoglienza e del discernimento, il consigliere pastorale deve preoccuparsi di favorire nella persona da aiutare un’apertura al coraggio e alla speranza, infondendogli la certezza che è possibile

accedere a nuove esperienze, a nuove possibilità, a nuove attività, a continui cambiamenti, a modi diversi di credere e di vivere, di pensare e ‘sentire’ la sua malattia. Se nell’interlocutore non cresce il desiderio di far qualcosa per uscire dalla situazione problematica, la RPA non può progredire. Solo quando egli chiarisce ed accoglie l’alternativa alla situazione insoddisfacente che sta vivendo, può passare ad un impegno concreto. A volte può capitare che lo stesso malato interlocutore, in seguito all’autocomprensione acquisita, proponga da sé delle iniziative concrete per aprirsi ad un cambiamento. Quando ciò non avviene, spetta al consigliere stimolarlo ad elaborare un piano d’azione o, almeno, a collaborare a tale progetto. Una metodologia utile a tale scopo e che trova ampia accoglienza nella letteratura sul counselling, si ispira alla teoria del “problem solving”. I principali momenti di tale processo consistono nel fissare alcuni obiettivi concreti e raggiungibili, nell’identificare le forze, che favoriscono e che ostacolano il processo di crescita, nello scegliere le azioni da compiere, nel determinare i vari passi da porre in atto, ed, infine, nel fare la verifica del processo. Il processo del “problem solving”, applicato alla R.P.A. può forse apparire arido e quasi meccanico. Tuttavia, da esso, la RPA può apprendere la tendenza alla programmazione ordinata del lavoro e alla concretezza.

Lo scopo della R.P.A. è di portare la persona malata o, comunque sia, bisognosa d’aiuto a diventare autonoma nella gestione della propria vita, più forte nell’affrontare il difficile momento della malattia e meglio orientata nel processo di crescita umana e spirituale. Quando tale obiettivo è raggiunto, la R.P.A. può terminare. A volte può accadere che il consigliere pastorale debba interrompere gli incontri con l’interlocutore, perché le situazioni presentate superano la sua competenza. In questi casi, è importante che il “dirottamento” verso altri aiutanti – (sacerdoti, psicologi, esperti vari) – venga attuato delicatamente, in modo che la persona aiutata non si senta rigettata. Nei casi in cui il termine della RPA è motivato dal raggiungimento dell’autonomia da parte della persona incontrata, il consigliere pastorale deve creare tutte le condizioni, affinché la separazione avvenga in modo appropriato, senza lasciare situazioni, soprattutto relazionali, irrisolte.

  1. Il Consigliere pastorale

Parlando del processo della RPA, non possono di certo mancare i riferimenti alla persona del consigliere, che costituisce uno dei fattori più importanti della RPA. Ciò che la teoria medica e psicoterapeutica hanno formulato relativamente all’incidenza della qualità d’essere del terapeuta, mantiene inalterato tutto il suo valore anche nel contesto della RPA. “Il farmaco più utilizzato in medicina generale”21, infatti, “è il medico stesso”22. Numerosi sono gli scritti dedicati a tracciare il profilo del consigliere pastorale23. Attento agli aspetti umani e spirituali, egli è una persona, il cui comportamento è una messa in atto dell’agape, che si esprime in un amore gioioso della verità, nella pazienza, in un atteggiamento ottimistico nei confronti del divenire della persona, nella presentazione del perdono come possibilità sempre attuale. Aperto anzitutto a ‘fare la verità su se stesso’ e ad aver integrato le proprie ‘esistenziali zone d’ombra’, il consigliere pastorale non esita a esplorare responsabilmente la propria personalità, per raggiungere un livello adeguato di libertà e di maturità che gli permetta di avere una chiara identità pastorale, di incontrare l’altro come tale e non come un suo prolungamento, di differenziare i propri bisogni da quello delle persone incontrate, di evitare indebite proiezioni transferenziali e di rendersi conto che le “situazioni pastorali” possono essere facilmente contaminate da tendenze narcisistiche, da eccessiva preoccupazione di autoaffermarsi, da desideri irrealistici di risolvere ogni problema o da atteggiamenti moralizzanti.

Ancorato ad un forte senso d’identità, frutto di adeguata preparazione, e convinto della validità del suo ministero, sa armonizzare l’auto-affermazione con il riconoscimento della pura strumentalità della sua azione. Segno di un Amore che lo trascende, s’impegna a rendere visibile tale segno attraverso la pratica di atteggiamenti umani, che rendono credibile l’Amore divino annunciato.

Guaritore ferito, sa fare della propria esperienza di sofferenza una fonte di guarigione per gli altri, rimanendo aperto a ricevere preziosi contributi da parte di chi vive il difficile momento del soffrire.

Nello stabilire la relazione con chi soffre, non si lascia guidare dalla mentalità del contratto, ma bensì da quella dell’alleanza, sull’esempio del Signore che si mantiene fedele anche quando la risposta dell’uomo viene meno. Infine, nel groviglio delle vicende umane, cui è chiamato a partecipare attraverso il proprio ministero, egli si sforza di leggere alla luce della parola del Signore, i momenti del cuore umano, così profondi e così contraddittori, nel loro spesso inconsapevole rapporto con la volontà di Dio24.

21 M. BALINT, Medico, paziente, malattia, Feltrinelli, Milano 1988, p. 7.

22 Ibidem.

23 Tra i tanti contributi, si confrontino: S. HILTNER, Il consigliere pastorale, Il Samaritano, Milano 1986; NOUWEN,

Il ministero creativo, Queriniana, Brescia 1981.

24 Cfr. BRUSCO, La relazione pastorale…, op. cit., pp. 47-61.

  1. VERBALE DI UN DIALOGO CON UN AMMALATO

La conversazione, da me condotta con un’ammalata e qui di seguito riportata, intende rispondere ad un semplice criterio di concretezza e di praticità, al fine di offrire un esempio utile per il chiarimento e la conferma dei dati teorici, precedentemente esposti.

 

  1. INFORMAZIONI ED OSSERVAZIONI

L’incontro avviene domenica 20 Novembre 2005, solennità liturgica di Cristo Re, intorno alle 10,45 presso il reparto di Medicina Generale della clinica privata “Santa Rita” in Roma, dove svolge il servizio ministeriale don Luigi C., mio carissimo amico.

La signora, con cui ho svolto il dialogo, si chiama Annalisa. Si trova nella camera singola n. 13 del sopracitato reparto, nel quale qualche giorno addietro le è stata cicatrizzata una vena capillare nella zona destra del setto nasale, perché di frequente aveva delle abbondanti perdite ematiche. Ha 36 anni, casalinga, sposata, con due figli.

Noto che ha l’aria un po’ stanca e mi sembra che sia un po’ giù di morale.

  1. PREPARAZIONE PERSONALE

Già dalla levata, mi sono disposto psicologicamente ad incontrare gli ammalati con serenità, con disponibilità all’ascolto e con calore umano.

Alle 9,30 con il cappellano della clinica ho desiderato concelebrare la Santa Messa, radiotrasmessa nelle diverse camere dei vari reparti, durante la quale ho chiesto al Signore che le persone, incontrate in quella mattinata, durante la mia visita, potessero attraverso di me percepire un segno della sua amorosa presenza. Terminata la S. Messa, ho preso con me Gesù Eucarestia per coloro che avessero desiderato comunicarsi e, indossato il camice bianco, mi sono avviato per il reparto.

  1. DIALOGO PASTORALE
  2. G.: ………………..

A.: …………………… .d. G. 1: (Entrando nella camera n. 13). Buon giorno, signora! Mi chiamo don Giuseppe e sono un amico di don …………….. , il cappellano.

  1. 1: Buon giorno, don………. . Il mio nome è…………… (Ci diamo la mano). Mi fa piacere che un sacerdote venga a trovarmi. Vuole sedersi? (Mi fa cenno alla sedia).
  2. G. 2: Oh, grazie molte, ……………. per la sua gentilezza. Come sta?
  3. 2: Eh, don……………, qualche giorno fa ero preoccupata, perché da tempo avevo il problema di continue perdite di sangue dal naso, a causa di una vena molto fragile. Vengo da …………. e sono voluta venire proprio in questa clinica, perché avevo sentito parlare molto bene del primario di questo reparto, il dott. V…….., anche se, non le nascondo, ho provato ugualmente paura della cicatrizzazione.
  4. G. 3: La comprendo, Annalisa, perché anche a me, quando avevo 12 anni, fu cicatrizzata una vena al naso. Ma mi dica come è andata?
  5. 3: Bene, grazie, e penso che fra tre o quattro giorni al massimo sarò a casa mia. (Abbassa la testa e il suo volto si fa un po’ triste).
  6. G. 4: (Mi alzo e mi faccio a lei vicino, ponendo la mia mano destra sulla sua spalla). Che c’è? Che cosa la preoccupa ? Non è forse contenta, ora che sta bene, di tornare a casa sua?
  7. 4: Padre, porto un peso sulla coscienza, che non mi fa prendere pace e non ho mai trovato la forza e il coraggio di parlarne con alcuno, neanche a casa! (Qualche secondo di silenzio, poi riprende). Anzi, solo il pensiero di ritornarci, mi fa stare ancora più male. Qualche volta mi è venuto in mente di andare a parlare con il parroco del mio paese, ma poi ho lasciato andare.
  8. G. 5: Annalisa, stia anzitutto tranquilla, la prego! Se desidera, può confidarsi con me. Io l’ascolto volentieri. E penso che ciò potrebbe farle del bene. (Sento, intanto, che il suo respiro si fa più accentuato e veloce e vedo alcune lacrime scendere dagli occhi e bagnarle le guance).
  9. 5: (Singhiozzando) Grazie, don Giuseppe, grazie; lei è veramente molto buono. (Si riprende … io, intanto, mi risiedo e le presto attenzione). Anche se nella mia famiglia ho ricevuto un’educazione cattolica e credo in Dio, deve sapere che non sono stata mai un’assidua praticante e non ho molta fiducia degli ministri della Chiesa, perché sono sempre indaffarati e non hanno mai tempo per i problemi veri della vita. Però, lei mi sembra diverso e, anche se non la conosco, mi ha ispirato fiducia sin da principio e, poi, (è seguito un piccolo silenzio), noto in lei tanta serenità e umanità.
  10. G. 6: La ringrazio, Annalisa, delle sue parole di apprezzamento e sono contento, se, ispirandole fiducia, posso aiutarla; anche se sono cosciente di avere, anche io, i limiti e le fragilità, che sono proprie di tutti gli uomini, preti compresi! Piuttosto, Annalisa, si apra: credo le farà bene!
  11. 6: Sì, don Giuseppe, eccomi. E’ un peso che porto, ormai, con me da ben tre anni. Non ne ho mai parlato! Ma, adesso, prima di tornare a casa, me ne devo liberare, perché mi fa stare più male del solo pensiero della paura della cicatrizzazione, che mi hanno fatto alla vena del naso. (Rimane un po’ in silenzio e riprende il respiro).
  12. G. 7: La ascolto, …………………..!
  13. 7: Don……………, io tre anni fa ho abortito! (Si blocca e scoppia in lacrime).
  14. G. 8: (Io la lascio sfogare, senza dire nulla. Dopo un po’, le porgo un fazzolettino di carta, perché possa asciugarsi le lacrime).
  15. 9: A mio marito non ho mai detto niente, perché non ho mai avuto il coraggio di farlo. Lui avrebbe sicuramente voluto un altro figlio, ma noi non potevamo permetterci il lusso di averne un terzo, perchè mio marito, all’epoca, era stato licenziato dal suo datore di lavoro e stavamo passando un momento veramente difficile. Ad ogni modo so che ho fatto qualcosa di male e, anche se sono trascorsi tutti questi tre anni, quel brutto ricordo di quell’azione, di cui mi sento colpevole, in me non si è mai cancellato. (Mi guarda con le lacrime agli occhi, poi, riprende). Ma, ora, sono pentita, mi creda, padre!
  16. G. 9:…………………………….! (Le prendo, intanto, la sua mano destra). Vedo che Lei è una donna forte e sono contento che, dopo tanti anni, ha trovato in se stessa la forza e il coraggio di parlare di tutto ciò con qualcuno. Sono anche convinto che proprio Gesù la sta aiutando ad uscire da questo incubo, che la faceva tanto soffrire. Vede? Queste sue lacrime sono il segno del suo vero pentimento! Annalisa, Gesù è misericordioso e il suo amore è sempre più grande delle nostre colpe, non importa quante e quali esse siano. Egli è sempre pronto a perdonarci, quando noi riconosciamo i nostri errori, proprio come hai fatto lei.
  17. 10: Sì, è proprio così! Grazie, don Giuseppe! Ora vedo come una luce, che si è accesa in me! E’ proprio il Signore che, oggi, l’ha inviata qui da me! (Gli occhi e il viso sono luminosi). Voglio confessarmi, non lo faccio da molti anni, ma ora voglio chiedere e accogliere il perdono del Signore!
  18. G. 10: Bene, Annalisa, sono proprio contento! (Ho anch’io gli occhi lucidi per la commozione). Sa? La mia gioia di sacerdote, come quella di tutti gli altri sacerdoti, al di là dei nostri limiti, è proprio vedere le persone accogliere liberamente l’amore del Signore e far maturare gradualmente in esso la loro propria esistenza. (E’ seguita la confessione sacramentale e, poi, Annalisa ha voluto anche comunicarsi).
  19. 11: Grazie, don…………………….! Grazie veramente!
  20. G. 11: Ringrazi il Signore,…………………………………..! Per me, le chiedo solo la carità di recitare un’Ave Maria.
  21. 12: Si, lo farò certamente!
  22. G. 12: Grazie, Annalisa. Le auguro, allora, una buona domenica e tutto ciò che di bene il suo cuore desidera. (Le stringo la mano in segno di congedo).
  23. 13: Grazie, don……………….., spero proprio di poterla incontrare ancora!

  1. ANALISI PERSONALE

Ho scelto di trascrivere proprio questo colloquio, perché l’ho vissuto più intensamente degli altri. Ricordo che ero sereno e calmo, animato dal desiderio di sintonizzarmi rispettosamente con il vissuto di…………, pur consapevole che il mio compito non era tanto di risolvere i suoi problemi, quanto di farmi suo ‘compagno di viaggio’, in nome di Dio.

Ho provato gioia, quando Annalisa ha cominciato a “sbloccarsi” parlando del suo problema e commozione quando mi sono reso conto che gradualmente si stava aprendo ad accogliere l’azione della grazia di Dio.

Ho esercitato sin dall’inizio l’ «arte» dell’osservazione, cogliendo le diverse sfumature del suo linguaggio verbale e non, partecipando ai suoi silenzi, al fine di comprendere meglio la sua persona, nelle sue risorse, nelle sue difficoltà, nel suo mondo interiore.

Ho voluto accompagnare i suoi sentimenti, senza essere direttivo nello scambio, senza negarli, banalizzarli o minimizzarli, cosciente che essi necessitavano di accoglienza, rispetto e comprensione, per essere, poi, adeguatamente “elaborati”. Mi sono adoperato a far emergere il suo senso di responsabilità e maturità, evitando l’uso di toni moralistici e, nel contempo, ho cercato di favorire nel dialogo che lei potesse attingere alle sue proprie risorse esistenziali, mobilitandole al servizio della salute e della speranza.

Ho preferito, in alcuni momenti, comunicare anche attraverso la gestualità, soprattutto quando la tristezza e lo sfogo richiedevano una vicinanza concreta. Non mi sono fatto difensore dei sacerdoti e della Chiesa, quando Annalisa pareva accusarli, perché ho ritenuto pedagogicamente più opportuno e salutare, in quella situazione, saper ascoltare il “grido” di una creatura ferita.

Nel corso del dialogo, non ho voluto ricorrere a frasi fatte o a stereotipi convenzionali, ma ho cercato di instaurare un vero rapporto personale, al cui interno ho potuto cogliere alcuni momenti propizi, per una semplice forma di annuncio e per la celebrazione dei Sacramenti.

In conclusione, penso di essere “entrato” nel mondo di Annalisa, in modo discreto e rispettoso e di essere stato per lei una presenza significativa, riflesso della paternità di Dio, che le ha fatto percepire calore umano, serenità, speranza, capacità di ascolto e di comprensione, favorendo e facilitando, in tal modo, una maggiore integrazione della sua persona e la sua apertura ad accogliere l’amore redentivo del Signore.

  1. DIAGNOSI PASTORALE

Relazione con Dio

Annalisa dice di credere in Dio e di aver ricevuto un’educazione cattolica nella sua famiglia (A5), ma è una presenza tenuta in poca considerazione esistenziale: infatti, ella non è una praticante assidua e la sua fede non incide tanto sulla sua vita (scelta di abortire). Manca una vera relazione filiale di amicizia con il Signore. Solo verso la fine del dialogo, ella riscopre la grandezza della sua misericordia senza limiti, al di là delle colpe umane (dG9, A10) e si decide ad accoglierla, pentita, (A9), nei sacramenti (A10). Questa prima riscoperta di Dio amore e perdono è avvenuta durante il suo periodo di malattia.

Relazione con la Chiesa

………………………………………, pur collocandosi in un vago orizzonte cattolico (A5), critica i ministri della Chiesa, riferendo di non riporre in loro molta fiducia, perché sempre indaffarati e dimentichi dei veri problemi della vita (A5). Ecco perché esprime un piacere di meraviglia, quando, all’inizio del dialogo, il sacerdote va a trovarla (A1). Dice di aver pensato di parlare del suo problema con il suo parroco, ma poi non fa più nulla (A4). Tuttavia nei riguardi della mia persona pronuncia parole di apprezzamento (A5), che possono essere il segno del suo ricredersi sui sacerdoti e della sua comprensione dei loro normali limiti umani (dG10, A11).

Relazione con la famiglia e con gli altri

Pur prendendosi cura della sua famiglia, come moglie e madre, tuttavia Annalisa non vive una vita relazionale qualitativamente buona. E’ quasi bloccata in un’incomunicabilità, che non le ha mai permesso di parlare a casa del suo aborto (A4, A9). Si è chiusa nel suo senso di colpa (A9). Pare che sia quasi quasi scontenta di essere dimessa dall’ospedale e ritornare a casa (A3, dG4), perché il ricordo della casa evidentemente lo associa con la vita abortita, ragion per cui vuole liberarsi di questo “groppone” prima di ritornarci (A6). Ho notato che, poi, alla fine, con me si è aperta abbastanza, trovandovi un buon sostegno.

Relazione con il passato

Annalisa non è serena, non riesce a prendere pace ed è, quindi, molto preoccupata (A4), perché non si è riconciliata con quanto è successo nel suo passato. L’aborto, infatti, è da lei vissuto come un peso (A6), aggravato da un senso di colpa, derivato dalla coscienza che al marito sarebbe piaciuto

avere il terzo figlio (A9). Questo peso, che non si è mai in lei cancellato, nonostante il passare degli anni (A9) è la sua vera malattia! Sembra che ne sia davvero rimasta traumatizzata! Relazione con la malattia ……………………………..sta male e non è in pace con se stessa, con la sua famiglia, con Dio e con lo stesso luogo ambientale della sua casa (A4), perché la sua vera malattia, come ho avuto modo di dire, è questo trauma, unito al senso di colpa derivante dall’aborto procurato, che, negandolo, non ha fatto altro che reprimerlo. Tutto ciò ha portato Annalisa verso una modalità di vivere patogena, con il ripiegamento solipsistico su di sé, chiudendosi in tal modo ad ogni vero contatto relazionale. Da qui deriva anche la sua angoscia e il suo non trovare pace, perché non accetta se stessa e, di riflesso, pensa di non essere accettata da Dio, né dagli altri. L’apertura all’azione della grazia sblocca questo circolo vizioso (A10) e dice la riapertura di un processo di relazionalità multiforme.

  1. PIANO PASTORALE

La signora …………………….avrebbe bisogno di:

essere tranquillizzata (dG5) e aiutata a trovare la vera pace;

una riconciliazione profonda con il proprio passato, integrandone il negativo;

chiarire, purificare e riscoprire esistenzialmente la presenza e l’immagine di Dio, cui era stata educata fin da piccola nella sua famiglia (A5), al fine di comprendere il suo amore misericordioso (dG9), abilitandola così ad una vita di fede vissuta nella sua esistenza;

maturare una visione più elastica e “misericordiosa” delle debolezze proprie e altrui (i sacerdoti)

(A5);

pervenire, con una coscienza ancora più riflessa (A10), alla comprensione che il tempo della sua degenza in ospedale è stato occasione propizia per farle maturare una decisione, rivelatasi benefica per la sua persona nel duplice versante salvifico-salutare;

vivere un rapporto diverso con la sua famiglia e con la sua fede (Dio, la Chiesa, i sacerdoti), come una possibilità concreta per modificare l’attuale modus vivendi verso una vero contesto relazionale personale ed umanizzante.