Gruppo di Auto aiuto come metodologia

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a cura del prof Emilio Esposito

A cura del Prof. Emilio Esposito Docente di Religione liceo scientifico/ e sezione Carceraria/ Formatore Area delle Professioni Sociali/ Formed – VdS C.R.I. / Consulente per il Terzo Settore (Welfare) /Componente Osservatorio Permanente Disagio Giovanile Comune di Mercato S. Severino. Servitore Insegnante Scuola Alcologica Territoriale – AICAT/ARCAT/APCAT/ Volontario Ambulatorio Dipendenze ASL Sa distretto 67-/ Responsabile Sportello Sociale C.R.I. (Delegato ASA ( Attività Sociali).Esperto in Biodiscipline e Bioenergetica /Libero Docente UTE Università per la Terza Età. Esperto in Logoterapia.

Il gruppo di auto aiuto è una metodologia di intervento sociale. L’esigenza di gruppi di auto aiuto nasce dalla inadeguatezza o carenza o inesistenza delle risposte dei sistemi sociosanitari e politici, quindi il sostegno reciproco tra membri rompe l’isolamento, mette a confronto le esperienze, il tutto in un clima informale e spontaneo. Un nodo fondamentale per capire il self help è senza dubbio capire l’importanza che riveste la parità dei membri. Infatti la caratteristica e la novità dei gruppi di auto aiuto è che il soggetto, ogni singolo soggetto, è contemporaneamente fruitore di sostegno.

Questo permette lo sblocco della passività e la liberazione dal senso di impotenza e dalla fiducia in se stessi. Lo strumento fondamentale per lo sviluppo globale della personalità e una corretta immagine di sé è la comunicazione empatica messa in atto nei gruppi di auto aiuto che crea un contesto affettivo, di rassicurazione, che permette all’individuo di far emergere la vita che è dentro di lui.

Comunicare, quindi, quale base per una reciproca libertà e chiarezza che, pur tra numerose difficoltà condurrà  alla crescita,  all’autonomia, alla maturazione.
Caratteristiche dei gruppi di auto aiuto
Nei gruppi di auto aiuto bisogna tener presente tre passaggi: l’accoglienza, il racconto, l’ascolto nell’accettazione reciproca; il raccogliere le forze per fare assieme, per testimoniare una condizione, per rivendicare diritti e tutela; poter scegliere di andare oltre, di fare altro; avere la possibilità di non chiudersi in una condizione particolare che diventa totalizzante, assoluta, senza via d’uscita. Quando effettivamente questo terzo passaggio manca, quando le forze si esauriscono nel tempo, quando il poco tempo esaurisce le forze, l’auto aiuto si spezza.

Il gruppo di auto aiuto è un gruppo di piccole dimensioni, in genere proposto spontaneamente da volontari, costituito per offrire aiuto psicologico e percorsi di autonomia alle persone con difficoltà, nel tentativo di favorire cambiamenti personali e/o sociali nei soggetti coinvolti.

Spesso questi gruppi nascono all’interno di movimenti di tipo ideologico (religioso o laico), a volte nella convinzione che il servizio pubblico non sia in grado di far fronte alle complesse esigenze che caratterizzano le persone in gravi difficoltà psico-sociali.
La presenza di un operatore professionale nella dimensione dell’auto aiuto assume oggi rilievo e significatività, in quanto questi gruppi offrono uno stimolo innovativo agli accessi di burocratizzazione e al rischio della spersonalizzazione spesso presente negli enti pubblici. In origine questi gruppi sono sorti prevalentemente negli ambiti di organizzazioni di solidarietà e, a volte, addirittura in contrapposizione al sistema dei servizi.

Ma in questa fase storica si sta cercando di affrontare e superare le eventuali conflittualità, al fine di fornire un servizio completo e professionalizzato anche a chi desidera auto- organizzarsi.
Nell’ambito della progettazione dei gruppi di auto aiuto, l’assistente sociale può avere l’importante compito di attivare le reti di supporto al disagio (familiari, amici, vicini), mentre nella gestione dei gruppi l’assistente sociale può svolgere la funzione di animatore e di coordinatore.

Tale funzione deriva dalla competenza specifica che è presente nel suo ruolo, e, più precisamente nella capacità di strutturare relazioni che rispettino gli obiettivi prefissati e nel porre particolare attenzione alla dinamica che si sviluppa all’interno dei gruppi. I gruppi di auto-aiuto si distinguono dalle altre tipologie di gruppi perché condividono in tutto o in parte determinate caratteristiche:

  • L’impostazione di un rapporto paritario tra tutti i partecipanti; cioè la condivisione di determinati disagi e difficoltà che definiscono lo status di appartenenza al gruppo, nonostante la diversità di sesso, età, estrazione sociale. La mutualità tra i membri è determinata dalla problematica attorno a cui si aggregano i partecipanti, siano essi direttamente o indirettamente coinvolti nel problema.
  • La libertà di poter dichiarare le proprie difficoltà, generando una comunicazione circolare che favorisce lo scambio di esperienze; la comunicazione si presenta come uno scambio reciproco di informazioni, emozioni, racconti, a cui tutti possono prendere parte, anche se in maniera differenziata a seconda del proprio bagaglio e delle proprie caratteristiche personali. Si esclude quindi la presenza di “utenti” come destinatari passivi di determinate prestazioni, ci si aspetta che ogni membro agisca al meglio delle sue capacità, in accordo con ciò che il gruppo ha stabilito come accettabile o non accettabile.
  • Condivisione di obiettivi comuni; i membri sono orientati verso il raggiungimento di alcune mete, consone rispetto a ciò che è percepito come problema centrale comune. Esse emergono dal gruppo piuttosto che essere determinate dall’esterno, e comunque è la loro condivisione da parte di tutti i membri e l’identificazione del gruppo con esse a rendere il gruppo effettivamente di auto aiuto.
  • Orientamento dell’azione; ciò che anima i gruppi è “imparare facendo” e “cambiare facendo”. Lo scopo dei gruppi di auto aiuto è la sperimentazione di nuove modalità di azione e di comportamento, di nuovi modi di sentire e trasmettere i vissuti.
  • Il ruolo del conduttore, che è complementare al ruolo dei partecipanti, tende prevalentemente con la propria competenza a facilitare lo scambio e a stimolare la partecipazione di tutti, senza modificare il contenuto.

Il gruppo non deve diventare un’appendice dei servizi formali né deve funzionare imitando procedure o tecniche professionali. La sua prerogativa essenziale è che l’attenzione della dimensione umana risulti esclusiva e che ogni istanza di razionalizzazione delle attività interne al gruppo risulti a questo finalizzata.
Il rapporto tra self help ed istituzioni è senza dubbio un problema chiave soprattutto in un contesto come quello italiano, dove l’iniziativa singola è sempre vista come poco seria.

Si evidenziano fondamentalmente due tipi di rapporti: • La sostituzione dell’intervento istituzionale; • L’affiancamento alle istituzioni.
Oppure, seguendo Silverman, si può parlare di gruppi autonomi o gestiti da servizi. L’auto aiuto può nascere su iniziativa di un professionista e patrocinato dai servizi oppure essere autonomo.

Un rischio da tenere presente, è che il self help non venga colto come un’occasione da parte delle istituzioni, per contenere le spese sociali in termini di assistenza.

È ovvio, d’altra parte, che l’inserimento dei gruppi nei sistemi istituzionali fa conservare il controllo del fenomeno ai tecnici e ai professionisti del settore sanitario i quali, hanno “paura” del potere che possono riprendersi o avere le persone e i cittadini che si auto-organizzano secondo le modalità di empowerment. I servizi sociali e i gruppi di auto aiuto non devono trovarsi in posizione di competizione tra di loro, in quanto i primi potrebbero fungere da catalizzatore dell’iniziativa dei gruppi oppure da stimolo, offrendo consulenza e formazione per la creazione appunto di nuovi gruppi e per lo sviluppo di quelli esistenti, dando entrambi il loro apporto alla comunità conservando un’ideologia e un’etica propria, senza che l’una sia superiore all’altra. C’è comunque da sottolineare che rimane un’accentuata reticenza dei servizi socio-sanitari ad assumere questo tipo di ruolo tendenzialmente paritario sul piano della relazione.

Nonostante l’attuale deregulation e lo smembramento del welfare state c’è stata, negli ultimi anni, un’incentivazione dei gruppi di auto aiuto e di tutela, in quanto essi hanno minori costi finanziari, di risorse e di tempo al punto che risultano vantaggiosi anche sul piano economico complessivo. I gruppi di auto aiuto offrono, alle persone che vi partecipano, la possibilità di esercitare attenzione ai loro corpi, alle loro menti, ai loro comportamenti e possono aiutare gli altri membri a fare la stessa cosa.
Il gruppo e i singoli svolgono quindi un ruolo unico e fondamentale nel fare emergere le risorse personali, le diverse esperienze, nel favorire la modificazione costante e progressiva di situazioni, vissuti, relazioni e stili di vita superando la semplice epistemologia di lettura e di soluzione lineare salute/malattia, devianza/normalità. In questo ambito è evidente come assume valore la dimensione del potere e quindi la distribuzione della leadership: nessuno dei singoli membri è da solo in grado di possedere tutte le abilità necessarie per un’efficace gestione della leadership.

Essa quindi viene condivisa, sia attraverso una periodica rotazione, come avviene, ad esempio, tra gli alcolisti anonimi, sia attraverso una suddivisione di compiti in base alle competenze e disponibilità dei membri, sia ancora affidando la conduzione del gruppo ad una persona che si ritiene essere in una fase avanzata del proprio problema alla quale viene affidato il gruppo: come avviene, ad esempio, in alcune comunità per tossicodipendenti, dove gli elementi fondanti la legittimazione della leadership sono sia la maggior competenza e sicurezza, sia l’essersi confrontato e confrontarsi sul problema su una base di esperienza personale e diretta. Da questo schema si evidenziano le principali differenze tra l’approccio tradizionale e l’approccio dell’auto aiuto:

Nella maggior parte degli interventi professionali la lettura del problema e la soluzione avvengono in chiave individuale, tutto al più di contesto familiare, mentre nei gruppi di auto aiuto la lettura del problema e la soluzione avvengono in chiave collettiva e di partecipazione. La caratteristica principale dell’auto aiuto, come già sottolineato, è l’essere un contesto orizzontale tra pari, permettendo a ciascun membro di non poter delegare all’altro la responsabilità del proprio percorso e, dunque, la responsabilità complessiva del sé.

Avviare e gestire un gruppo di auto aiuto
Come si è già cercato di spiegare, l’auto aiuto è tale se la persona bisognosa è in grado di far fronte ai problemi tramite se stessa e il gruppo di supporto, senza ricorrere a professionisti, staff medici, sedute psicoterapeutiche o medicinali.
D’altra parte, però, all’origine il gruppo deve poter avere una base di partenza, un nucleo d’esistenza che permette ad esso di svilupparsi.
Il compito di formare il gruppo è affidato ad un professionista, un medico, uno psicologo oppure ad un ente sociale e agli assistenti sociali, che hanno il compito di avviare il gruppo per poi lasciarlo vivere della sua forza, una volta raggiunta.
Il professionista dopo aver avviato la situazione di gruppo nel senso organizzativo, deve avere le capacità di incanalare le discussioni e le comunicazioni durante gli incontri mantenendo un clima di gruppo ristretto e primario.

In tal senso la figura del facilitatore dovrebbe diventare sempre meno influente, proporzionalmente alla crescita del gruppo come unità, fino ad essere relegato a mero moderatore nei casi di contrasti o appoggio in quelli di crisi, fino a scomparire del tutto lasciando il gruppo autonomo e capace di autogestirsi.

Il passaggio però è solo teorico dal momento che difficilmente il professionista riesce a lasciare il gruppo, perché figura troppo importante e anche imparziale e collante di tutta l’esperienza. Kurtz riferisce che il ruolo del professionista nel vero self help è quello di Linker in modo da creare un bilanciamento tra indipendenza e dipendenza, ossia tra il gruppo e l’organizzazione che gli ha dato la vita.
La funzione di catalizzazione porta ad una sorta di autoterapia per condurre l’individuo ad una propria specificità e autonomia biopsichica nel senso di vita/non vita. Il professionista deve lavorare affinché i membri del gruppo smettano di dipendere dall’esterno, dal sociale e quindi dalla generalizzazione e comincino, invece a dipendere solo da se stessi e dalla loro condizione di vita.
Quando si ha l’intenzione di creare un gruppo di auto-aiuto, il professionista deve poter decidere la grandezza, i criteri di accettazione delle adesioni e di ammissioni; deve cercare un posto per gli incontri, formulare un piano di reclutamento, ecc. Ovvio che il professionista deve avere una certa preparazione sui gruppi di supporto per poter prendere decisioni e per potere essere pronto a trasmettere le sue conoscenze ai membri del gruppo. Il professionista all’inizio, quindi, funge da catalizzatore, assumendo anche funzioni organizzative.

Il ruolo del professionista in un gruppo di self help è quello di facilitare la comunicazione. Per attuare questo scopo primario si deve tenere presente che i membri preferiscono incontrarsi in un clima che percepiscono positivo, che fa del supporto la base e in cui la negatività, i commenti critici e le domande intrusive sono assenti. Il facilitatore può intensificare il sentimento di supporto non criticando i membri e non chiedendo di questioni personali, rispettando, così, la confidenzialità perché il gruppo non è un trattamento psicoterapeutico in cui tutto deve essere portato a livello coscienziale.

Il facilitatore per questo motivo, per rendere il gruppo maggiormente coeso, deve cercare di incrementare le opportunità di incontro tra i membri e deve far rientrare le conversazioni anche dopo l’incontro stabilito. Ad esempio, la chiusura del meeting può prevedere un rinfresco, un banchetto per incrementare la socializzazione. Un altro importante contributo del facilitatore è quello di fornire le informazioni.

Egli può presentarle in modo didattico oppure chiamando degli esperti a parlare al gruppo oppure fornendo della letteratura sul disagio di cui il gruppo si occupa. Importantissima anche la sua abilità nel far defluire l’incontro in modo da far partecipare i membri alla discussione portandoli ad esprimere e raccontare le proprie storie e cosa hanno imparato da esse.

In pratica il facilitatore deve essere in grado di trasmettere ai membri la capacità di sapersi aiutare mostrando come la responsabilità della guarigione non sia nelle sue mani, ma, in quelle di tutti i partecipanti. Il modello della comunicazione è solitamente free- floating, vale a dire le discussioni fluttuano da una persona all’altra in modo spontaneo. Silverman riferisce di diversi modi per condurre la comunicazione, per esempio: lasciare che la persona parli per cinque minuti per poi chiedere le reazioni al gruppo, oppure dividersi a coppie per discutere e tornare nel gruppo per mettere assieme le conclusioni, oppure far parlare gli anziani, ecc.
L’abilità di conduzione dei gruppi è molto importante per il facilitatore. E’ fondamentale che egli sia responsabile che ogni persona che interviene abbia avuto il tempo sufficiente per chiarire il suo problema, che vengano espressi sia pareri positivi sia negativi, che le persone più silenziose siano incoraggiate a dare il loro contributo, che il gruppo noti le invocazioni di aiuto, che la discussione non cambi argomento prima di averlo risolto o comunque discusso; il facilitatore è responsabile, inoltre, della sintesi della discussione e della gestione dei sentimenti negativi da parte delle persone.
Per ciò che riguarda gli stadi di sviluppo del gruppo, si può ipotizzare uno stadio iniziale durante il quale i membri cercano di scoprire le similarità, cercano informazioni e soluzioni alternative al problema. Lo stadio intermedio inizia quando i membri sono aperti all’analisi personale del loro problema e quindi in grado di offrire aiuto agli altri e pronti a cercare dei significati nella loro esperienza.

Il facilitatore deve incentivare questo sviluppo e farlo progredire verso lo stadio finale quando dovrà avvenire la transizione verso un’esistenza indipendente.

Il ruolo del facilitatore è quello di rendere naturale la separazione dal gruppo verso la vita reale, magari incentivando incontri informali tra i membri, non più come membri di gruppo di auto aiuto ma come amici.
 

 

Conclusioni Il gruppo di auto aiuto è una metodologia di intervento sociale, composto da persone che condividono lo stesso problema e che sono disponibili a percorrere le stesse esplorazioni.

Esso è come un microscopio, consente di rivolgere lo sguardo verso la propria interiorità imparando a conoscersi meglio e ad accettare se stessi e gli altri.
Il gruppo diviene così il luogo in cui assumere la responsabilità della propria condizione,  qualunque essa sia e in ogni momento.
I gruppi di auto aiuto, oltre che costituire una presenza reale, a volte divengono anche presenza unica e insostituibile in quanto propongono percorsi modificabili e aggiustabili in itinere, creano un ” contenitore” che costituisce un luogo di riflessione sul proprio essere, ma anche luogo di pausa, di riposo, rispetto ad un contesto in cui la performance è l’unico obiettivo ed elemento identificativo dell’individuo moderno.
In questi gruppi si realizza quella che è stata definita la “relazione pura” in cui i membri negoziano continuamente la loro autonomia e la loro dipendenza e contemporaneamente si valorizzano vicendevolmente, grazie anche ad una figura professionale (facilitatore), il cui compito primario è quello di favorire la comunicazione, e di rendere il gruppo autonomo e capace di autogestirsi.
Lo sviluppo e l’incremento del ruolo dei gruppi di auto aiuto nell’ambito delle politiche sociali va a collocarsi, quindi, nella dinamica di mutamento del welfare tradizionale in cui convivono libertà individuali e uguaglianze, responsabilità individuali e responsabilità sociale.