CONTESTI FORMALI ED INFORMALI

counseling sociale

a cura del prof: Emilio Esposito

Il counseling1 è un’ intervento di consulenza che si fonda sul sostegno personale, sull’orientamento, sull’empatizzazione reciproca tra il counselor2 ed il cliente. Un counselor non si limita ad interagire con il cliente nell’ottica di guidarlo o consigliarlo, ma entra anche in merito ad alcune sue scelte comportamentali [] Il counseling entra così nel merito della motivazione delle scelte e della costruzione di significati connessi ai valori di riferimento della persona ma anche della comunità (Lo Staff di Prepos, 2006)

Il Counseling Sociale è quindi un modello di intervento privilegiato per la promozione della qualità della vita di soggetti, gruppi e comunità. La sua definizione nasce dal lavoro dello S. A. di Prevenire è Possibile a seguito di un lavoro decennale svolto in diversi ambiti sociali ed educativi e si può inserire accanto a modelli emergenti quali Tutoring, Mentoring, Coaching, nati per rispondere ai fenomeni dilaganti di disagio e devianza della moderna società.

Il counselor sociale opera all’interno delle relazioni sociali come “sensore” delle dinamiche relazionali tra i gruppi all’interno del tessuto sociale, non solo in contesti formali, ma anche informali che richiedono modelli elastici e flessibili di approccio relazionale. E’ un modello di intervento che richiede modalità specifiche di comunicazione per il contatto diretto e privilegiato con certi gruppi difficilmente raggiungibili attraverso i classici modelli operativi dei servizi.

La prima attestazione dell’uso del termine counseling per indicare un’attività rivolta a problemi sociali o psicologici risale al 1908 da parte di Frank Parson. Nel 1951 la parola counseling fu usata da Carl Rogers per indicare una relazione nella quale il cliente è assistito nelle proprie difficoltà senza rinunciare alla libertà di scelta e alla propria responsabilità.

Negli Stati Uniti, attività di counseling si trovano fin dai primi anni del ‘900, quando alcuni operatori sociali adottano il termine per definire l’attività di orientamento professionale rivolta ai soldati che rientrano dalla guerra e che necessitano di una ri-collocazione professionale, successivi sviluppi avvengono per l’influenza di attività di ricerca e culturali tra i quali “l’assistenza sociale e infermieristica”. Il counseling è quindi una relazione d’aiuto multiforme per individui, gruppi, famiglie e collettività in generale con finalità e applicazioni diverse: compresi quelli della prevenzione, devianza e dell’emergenza sociale.

Il Italia si possono rintracciare attività affini al counseling nella storia dell’assistenza sociale che ebbe inizio intorno agli anni venti. Tali iniziative assistenziali,

1 Il counseling è una relazione d’aiuto che muove all’analisi dei problemi del cliente, si propone di costruire una nuova visione di tali problemi e di attuare un piano di azione per realizzare la finalità desiderata dal cliente (prendere decisioni, migliorare relazioni, sviluppare la consapevolezza, gestire emozioni e sentimenti, superare conflitti), (Dizionario della Scuola per counselor Prevenire è Possibile 2005).

2 Il sostantivo counseling deriva dal verbo to counsel che risale al latino consulo-ĕre, traducibile in “consolare”, “confortare”, “venire in aiuto”, si compone di cum e solĕre, “alzarsi insieme”, sia propriamente come atto che nell’accezione di “aiuto a sollevarsi”. È omologo un altro verbo latino: consulto-āre, iterativo di consultum, participio passato di consulo, col significato di “consigliarsi”, “deliberare”, “riflettere” (cfr. Senatus consultum ultimum).

formalmente costituitesi nel 1929 avevano carattere filantropico e volontario, nascevano nello stesso periodo delle prime scuole per assistenti sociali. Una maggiore visibilità degli interventi di counselling si è avuta a seguito delle politiche sociali e sanitarie volte a fronteggiare il diffondersi dell’epidemia HIV/AIDS quando la legge n.135 del 1990 ha sancito che il test diagnostico deve essere preceduto e seguito da colloqui di Counselling.”

3 Riduzione del danno (RDD): con il termine”harm reduction” si intende in ambito anglosassone la strategia sanitaria e sociale che ha come obiettivo quello di diminuire i rischi e gli effetti negativi connessi al consumo di droghe. Questo approccio, affonda le sue radici nel paradigma di Pulic Health, ma prende impulso negli anni novanta, in cui viene riconosciuta la necessità di elaborare nuove strategie per fronteggiare l’emergenza della diffusione dell’Hiv. Il termine “harm reduction”, viene coniato durante la prima conferenza internazionale svoltasi a Liverpool nel 1990. Gli obiettivi erano fondamentalmente due: ridurre l’incidenza della sieropositività, e migliorare le condizioni generali di salute dei tossicodipendenti.

La riduzione del danno in Europa si diffonde anche in vari paesi, come ad esempio in Olanda attraverso il progetto sviluppato nel 1981 dalla “Junkie Union”, per prevenire la diffusione dell’epatite attraverso la distribuzione di siringhe pulite direttamente nelle “piazze di consumo”. Queste esperienze vengono definite “bottom-up approach”, ovvero con un approccio dal basso, in quanto sono strutturate da un’azione degli stessi consumatori, piuttosto che da politiche dall’alto “top-down policy”. (S. Brogi, 2005)

Politiche socio-sanitarie non prive di ambiguità, prevedono interventi volti a diminuire gli effetti negativi legati al consumo di droghe illegali e non tanto quello di ridurre il consumo stesso, infatti, l’intervento primario rivolto a questa popolazione da parte dei servizi è quello di alti dosaggi di metadone, finalizzato a separare il tossicodipendente dal mondo illegale del consumo o agli interventi di contenimento dei rischi di patologie come AIDS, epatiti e morti per overdose (attraverso la distribuzione di materiali informativi e presidi sanitari sterili) […]la riduzione del danno che da una parte mira a contenere la pericolosità sociale del tossicodipendente, viene spesso usato dagli operatori sociali con una funzione difensiva rispetto all’impossibilità di raggiungere gli obiettivi ideali, dei propri interventi, ovvero la remissione completa del sintomo. (S. Bertoletti, E. Ruggeri, 1997)

4 Il lavoro di strada (LDS) nasce prevalentemente nei paesi anglosassoni e nord Europa alla fine degli anni ’80 come prevenzione degli stati di emarginazione minorile e come risposta ad una situazione di grave allarme sociale sorto con il diffondersi del virus dell’HIV, all’interno di politiche socio-sanitarie che prevedono la “riduzione del danno e del rischio” e si caratterizza in percorsi mirati, con l’obiettivo di andare in contro al disagio/marginalità facente parte del cosiddetto “sommerso” e cioè coloro che negano esplicitamente un bisogno di aiuto e quindi non afferiscono ai servizi.

Il lavoro dei primi “street worker” o “street walker” veniva svolto sia su unità mobili sia a piedi ed era limitato ad un ristretto numero di popolazione considerata a rischio quali i tossicodipendenti e gli omosessuali. (M.Naccari, 2004)

5 La definizione di “Facilitatore relazionale del territorio” è stata coniata nel convegno nazionale delle Unità di Strada tenutosi nel 1994, da cui è stato stilato un documento la “Carta di Certaldo” in cui sono definite e condivise a livello nazionale le tecniche e le pratiche del lavoro di strada.

Altre attività si sono sviluppate a partire da alcune esperienze spontanee di animazione sociale, trasformate in seguito in progetti legittimati e finanziati dai servizi socio-sanitari all’interno delle politiche di Riduzione del Danno3 e dei modelli operativi delle Unità di Strada4, sorte nei paesi Nord Europei e trasferite in Italia intorno agli anni 80.

La ricerca, nel counseling sociale si effettua con modalità operative plastiche e flessibili, linguaggi calati nell’ambiente in cui l’operatore è inserito, tali da permettere di plasmarsi ad un contesto informale per natura. Il counselor sociale diviene il “facilitatore relazionale del territorio”5.

L’ obiettivo è quello di gettare le basi per interventi che promuovano la “qualità della vita”, ciò significa innanzitutto dare occasione alle diverse realtà di manifestarsi e saper cogliere le offerte che ci sono in un determinato luogo.

6 Si tratta senz’altro di un modo nuovo di concepire il lavoro sociale, che si apre a considerare assieme, intrecciate in una rete unica, le risorse complessive per il benessere, sia istituzionali che umane. Community Care: questa la formula in inglese, non facilmente traducibile, se non con un improprio “cure di comunità”: essa sta a significare proprio il riconoscimento dell’importanza delle reti sociali informali (famiglie, amici, vicini), ripensando al modo di agire di quelle formali (burocrazie) e lavorando perché formale e informale non si limitino a collaborare restando separati, ma formino un’unica rete in grado di migliorare l’ambiente – umano e materiale – in cui la persona vive.

7 Secondo Donata Francesco e Guidi Girelli, il termine comunità ha la stessa radice di “comune” e di “comunicazione”, tale radice deriverebbe da cum-munia (doveri comuni) o da cum-moenia (mura, fortificazioni comuni). In ogni caso il prefisso “cum” sottolinea l’aspetto di relazione, di contesto condiviso, di globalità del sistema interattivo, (S. Tramma, 1999).

8 L’educazione -intesa come presenza capace di condividere esperienze e di accompagnare processi di co-costruzione di significati- è una funzione che può ricevere legittimità dalla strada (Luigi Regoliosi, 2000).

9 Promozione dell’agio: riguarda tutti quegli interventi che influiscono positivamente sulla qualità della vita giovanile, promovendo salute, cultura, socializzazione. Comprendiamo in questa categoria tutte le attività di carattere ricreativi-

Nell’attuale assetto sociale tanto più complesso quanto più incerto, il counselor sociale è un professionista in grado di leggere il contesto nel quale opera non soltanto sul piano psicologico e sociale ma principalmente relazionale, sa utilizzare strumenti adeguati per l’osservazione e la lettura di fenomeni articolati di una realtà in continuo mutamento, mettendo a disposizione la propria affettività.

La sua azione tende a promuovere la qualità della vita e lo sviluppo della comunità attivando un processo che induca i soggetti che la compongono ad essere protagonisti, capaci di risolvere i propri problemi e soddisfare i propri bisogni, attraverso il concetto di community care6. Una comunità7 vista come struttura aggregante capace di promuovere un maggior senso di identità e competenza sociale, capace di riflettere sugli stili educativi messi in atto e di partecipare attivamente alla progettazione.

Calarsi dentro il contesto relazionale di un luogo implica dialogare con l’altro, il counselor svolge all’interno della comunità una funzione implicitamente educativa8.

[] lo spazio educativo può essere definito come luogo in cui avviene l’interazione educativa, come area che sottende il rapporto tra educatore ed educando, agito secondo una intenzionalità trasformativa della situazione (S. Tumma 1999)).

La teoria di riferimento parte da un valore di fondo che è quello dell’apertura verso l’altro: l’accoglienza e l’empatia, sono punti salienti per comprendere il vissuto emozionale di chi si ha di fronte, una strada possibile per entrare in relazione, mantenendo quest’ultima in una posizione asimmetrica per conferire legittimità e senso all’operare del counselor.

L’operatore (o counselor) non è lo scienziato [] di una inesistente scienza pedagogica: egli è semmai, il problematizzatore [] la voce continuamente dialogante []. In educazione si ha a che fare con “presenze”, ovvero con “vissuti esistenziali”, attraverso cui occorre passare nel corso della vita, e con i quali ci si deve incontrare, rispetto ai quali ci si deve, prima o poi, esporre ed esprimere (Demetrio 1995) (la scritta tra parentesi è aggiunta)

Il modello di riferimento si basa non tanto sulla rimozione del disagio quanto sulla promozione dell’agio9, delle potenzialità, delle risorse, competenze e responsabilità

culturale di socializzazione, orientamento, e formazione finalizzate a promuovere potenzialità, e competenze sociali, relazioni interpersonali, coscienza collettiva (Luigi Regoliosi, 2000).

dell’individuo per acquisire gli strumenti idonei alla gestione dei problemi che si incontrano. Questo lavoro avviene attraverso il coinvolgimento attivo di tutti gli attori sociali, per rendere possibile la presa in carico del problema a tutta la comunità o più semplicemente per migliorare la qualità della vita di un intero territorio.

Ma la mission del counselor deve potersi estendere oltre i limiti del disagio del singolo e giungere al cuore delle relazioni all’interno della comunità intera. Il problema del singolo è in definitiva il problema di tutta la comunità. Questa non può allora sottrarsi ad una revisione onesta e profonda sulla qualità delle relazioni che ha prodotto. E se un membro soffre, tutte le membra soffrono; mentre se un membro è onorato, tutte le membra ne gioiscono insieme (1Corinzi 12:26)…perché siamo membra gli uni degli altri (Efesini 5:25).

Le esperienze ci insegnano come sia difficile comprendere quali siano gli interventi efficaci da realizzare in un territorio per promuovere il cambiamento, è quindi importante il coinvolgimento attivo dei destinatari diretti e indiretti dell’intervento, affinché l’opera pensata non sia soltanto il frutto di una riflessione tra gli addetti ai lavori ma soprattutto un incontro/scambio fra gli operatori e i fruitori dell’intervento, avvalendosi del coinvolgimento della rete sociale esistente.

“…Lo scopo è quello di creare le condizioni per un’autonomia decisionale, attraverso la considerazione dei fattori coscienti come gli interessi, i gusti, le aspirazioni economiche, il prestigio sociale, e le inclinazioni profonde ed inconsce che rinviano ai bisogni affettivi di fondo e ai meccanismi di adattamento che sono alla base delle dinamiche personali e del modo di esistere dell’individuo. Scopo del counseling è quello di consentire all’individuo una visione realistica di sé e dell’ambiente sociale in cui si trova ad operare, in modo da poter meglio affrontare le scelte relative alla professione, al matrimonio, alla gestione dei rapporti interpersonali, con la riduzione al minimo della conflittualità dovuta a fattori soggettivi”.(U.Galimberti)

Per formulare un progetto è necessario un primo momento di verifica/valutazione della realtà esistente, della comprensione dei bisogni reali dei destinatari a cui è rivolto l’intervento, della definizione della domanda che sia implicita o meno, delle risorse già esistenti e di quelle da attivare. Parallelamente è necessaria una chiara visione del mandato che viene consegnato dal committente, che questo non si riduca al semplice controllo sociale, il quale è spesso sottinteso nelle richieste di intervento, soprattutto quando questo nasce da un allarme sociale a causa di un fenomeno che sfugge dai controlli delle norme ormai ritenute condivise. La negoziazione passa attraverso il riconoscimento e la qualificazione della consulenza del professionista che ha strumenti e strategie appropriate per la definizione e la progettazione dell’intervento. Un progetto ha valore ed è efficace se viene realizzato e condiviso non solo negli obiettivi ma ancor prima nel significato che questo assume, nella

10 I progetti di prevenzione sono comunque mirati al “cambiamento”, il riferimento all’area dei “valori” è inevitabile e questo rimanda alla connessione tra prevenzione e controllo (S. Ambroset, 1997)

11 La psicologia di comunità si può definire come un area di ricerca e di intervento sui problemi umani e sociali che si rivolge in modo particolare all’interfaccia tra la sfera personale e quella collettiva, tra la sfera psicologica e quella sociale. (Amerio, 2000) Settore applicativo nato formalmente nel 1965 dopo un convegno a Swampscott,è stato in realtà anticipato, nelle sue idee fondanti da Alfred Adler. Esso mira a promuovere il benessere individuale e collettivo attraverso un’opera emancipatoria e di forte carica sociale. Temi imprenscindibili per l’operatore di comunità sono il saper entrare empaticamente in contatto con la persona a cui fornire aiuto, il concetto di empawrement di tecniche di auto aiuto

(.http://it.wikipedia.org/wiki/Psicologia_di_comunit%C3%A0)

12 Per setting s’intende l’insieme delle costanti nel cui ambito si svolge un processo educativo o psicoterapeutico (Kaneklin, 1992). Nel Lavoro di Strada il setting comprende il ruolo dell’operatore, le sue teorie di riferimento, la sua professionalità e l’insieme dei fattori spazio-temporali che derivano dal contratto (scritto o verbale) che regola il suo lavoro ((Luigi Regoliosi, 2000).

condivisione dei valori10 di fondo che hanno spinto all’azione, lasciando libera scelta per le strategie operative e logistiche al counselor.

Il termine counseling indica un’attività professionale che tende a orientare, sostenere e sviluppare le potenzialità del cliente promuovendone atteggiamenti attivi, propositivi e stimolando le capacità di scelta, si occupa di problemi non specifici (prendere decisioni, miglioramento delle relazioni interpersonali) e contestualmente circoscritti (famiglia, lavoro, scuola), fino a contesti allargati, quali i gruppi sociali. Se visto nell’ottica di sviluppo di comunità, il counseling sociale diviene una forma di ricerca che prendendo spunto dalla “psicologia di comunità11“, promuove forme di interazione sociale, andando ad intervenire nel clima relazionale di gruppi, riconoscendo emozioni e sentimenti che determinano la percezione di vivibilità di un dato contesto, ancor prima che fattori di rischio si manifestino.

La psicologia di comunità interpreta la strategia preventiva in senso ancor più radicale, tentando quando è possibile non solo di evitare e ridurre le manifestazioni del disagio, ma di migliorare le condizioni di vita della comunità e favorire l’integrazine positiva e dinamica tra individuo e ambiente (F. Girelli, 1988).

L’individuo esprime il proprio disagio non solo riguardo alla percezione del proprio livello emotivo, cognitivo e comportamentale, ma anche nei confronti dei valori di cui è portatore. Nella relazione d’aiuto è dunque fondamentale individuare il contesto dei significati in cui si esprimono le azioni e le reazioni della persona.

L’approccio qualitativo per lo sviluppo di relazioni significative passa attraverso la percezione del vissuto dell’altro, attraverso il modello centrato sull’ empatia-affettiva, di ascolto attivo, e non giudicante, del riconoscimento delle storie dell’essere “essere umano”, nella predisposizione accogliente del setting12 entro cui la relazione avviene.

Essere counselor “richiede una profonda empatia, la comprensione del carattere e delle tensioni interne della personalità, la capacità di accettare e rispettare gli altri senza falsi moralismi, l’umiltà di non imporre le proprie scelte di vita”. (R. May 1991).

Il ruolo fondamentale sperimentato nel corso del nostro lavoro è quello di reale supporto alle programmazioni delle istituzioni: dalla scuola agli enti locali per la prevenzione del disagio sociale e la promozione della qualità della vita con l’occhioanalitico del counselor sociale ed il modello di ricerca scientifica di Prevenire è Possibile, e cioè la lettura dei sintomi relazionali attraverso le 14 tipologie di relazioni .