Adolescenza e processo di Separazione-Individuazione

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A cura del prof. Emilio Esposito

La famiglia costituisce da sempre oggetto di studio di numerose discipline che, attraverso sofisticati modelli concettuali, tentano di descrivere un universo di per sé vasto e complesso la cui interpretazione è resa, senza dubbio, più difficile dalla molteplicità delle sue strutture e funzioni.

La famiglia, secondo l’approccio sistemico – relazionale, è un sistema in costante trasformazione, una totalità dinamica la cui evoluzione è data dalle reciproche relazioni tra i suoi membri e tra questi e l’ambiente esterno.

Il sistema familiare mantiene, nel suo evolvere, una integrità che permette (o dovrebbe permettere) ai suoi membri di poter sviluppare la propria individualità, intendendo per processo di separazione-individuazione, lo sviluppo di tutti quei fattori che portano al costituirsi dell’identità personale quale totalità, unitaria e permanente da un lato, articolata e in divenire dall’altro.

Gli studi sul sistema familiare hanno messo a punto due modelli esplicativi, l’uno di tipo longitudinale, basato quindi sullo sviluppo nel tempo del sistema, e l’altro di tipo trasversale, basato sull’analisi dei rapporti intergenerazionali. Il primo è il modello del ciclo vitale della famiglia, il secondo quello della famiglia trigenerazionale.

La famiglia dal suo formarsi attraversa tutta una serie di fasi che costituiscono quello che è appunto definito ciclo vitale. Il ciclo vitale è determinato da una serie di fattori che attengono alla sfera psicologica, a quella sociale e a quella biologica.

Le fasi che costituiscono il ciclo vitale possono schematicamente essere individuate nella costituzione della coppia, nella nascita dei figli, nel processo di crescita di questi, nel loro uscire dalla famiglia, nella coppia senza più figli, sino alla morte dei coniugi. All’interno di queste fasi potrebbero a loro volta essere individuate delle altre fasi.

Ogni fase presuppone l’accadere di un evento critico (nel senso più generale del termine e quindi non solo negativo) che determina un processo di regolazione (che può essere funzionale o disfunzionale) e che impone a sua volta dei compiti di sviluppo.

Se una famiglia si è costituita su solide basi e se ha in sé l’elasticità sufficiente a trasformarsi in coincidenza con gli eventi critici che scandiscono la sua esistenza sarà in grado di autoregolarsi e di seguire un processo di sviluppo che porta alla differenziazione e alla assunzione di nuove funzioni e capacità.

Oltre all’asse orizzontale costituito dal ciclo vitale esiste un asse verticale costituito dai rapporti intergenerazionali. Secondo il modello del Trigenerazionale, noi siamo attori che insceniamo un copione scritto nell’inconscio. Nella mente dell’individuo esiste cioè qualcosa di organizzato che non appartiene solo al corso della nostra vita.

Qualsiasi considerazione relativa allo sviluppo della famiglia non può prescindere dalle famiglie d’origine dei partner che formare la coppia (coniugale e genitoriale). I bisogni e i coinvolgimenti emotivi delle famiglie d’origine si manifestano nell’ambito delle relazioni della generazione successiva senza che questa ne sia spesso consapevole.

Esistono, cioè, dei copioni familiari (John Bying-Hall, psichiatra infantile e terapeuta della famiglia presso la Tavistock Clinic) che raccolgono “le aspettative condivise della famiglia di come i ruoli familiari debbano essere rispettati all’interno di contesti differenti”. Gli script contengono indicazioni sul comportamento da adottare in determinate circostanze, su “chi fa che cosa” nell’affrontare le circostanze della vita e le relazioni interne al nucleo

Secondo l’autore, il bambino piccolo è come un nuovo attore scritturato in un vecchio copione, che gli viene assegnato dai genitori.

Ciò avviene attraverso un processo che non è unidirezionale, bensì circolare e sistemico: dalla “platea il bambino assiste a quanto accade sul palcoscenico, osserva con attenzione le interazioni familiari. Assorbe atteggiamenti e comportamenti ed interpreta quanto accade.

Contempla gli attori e le reazioni del “pubblico” in platea, le ragioni di chi “agisce” e quelle di chi “è agito“. Non si limita ad osservare quanto accade, ma cerca di collegarlo con i significati che gli adulti attribuiscono ad episodi, comportamenti e sentimenti, in sostanza con le aspettative del mondo degli adulti. Mette alla prova le loro reazioni, possibilmente fa domande per capire cosa essi si aspettino.

Procede per tentativi ed errori alla formulazione del proprio ruolo all’interno dello script familiare. Si modella intorno alle aspettative dei genitori, che reagiranno selettivamente ad un suo comportamento mentre ne ignoreranno altri: il bambino, selettivamente, amplificherà alcuni aspetti di sé.

Quello che Bowlby (1988) ha notato per il bambino, cioè che quanto meglio funziona il sistema di attaccamento tanto più attive ed efficaci sono le funzioni esplorative, vale anche per l’adolescente. Per Bowlby la capacità di instaurare legami emotivi è una componente di base della natura umana, già nel neonato.

Nell’infanzia e nella fanciullezza i legami privilegiati riguardano i genitori (o loro sostituti in qualità di caregiver): da loro il bambino ricerca protezione, cura, aiuto. Il bambino usa il genitore come base sicura da cui partire per le sue esplorazioni: genitore e bambino restano in contatto per essere sicuri di potersi avvicinare nel caso si presenti per il piccolo un potenziale pericolo:”… si tratta di un ruolo simile a quello dell’ufficiale che comanda una base militare da cui una forza di spe-dizione si mette in viaggio e in cui può ritirarsi in caso di sconfitta.

Per gran parte del tempo il ruolo della base è un ruolo d’attesa, ma è nondimeno vitale… Nel caso di bambini e di adolescenti noi li vediamo, man mano che crescono, avventurarsi sempre più lontano dalla base e per periodi di tempo sempre maggiori” (Bowlby, 1988, pag. 10-11).

Durante questo “stare fuori”, il gruppo dei pari diventa fondamentale per l’adolescente in quanto gli consente di avere un confronto con gli altri e di offrire stimoli per diverse e svariate forme di identificazione. Il gruppo e quindi di grande aiuto al fragile Io adolescenziale soggetto a frequenti improvvisi e reversibili stati di passività, proprio per il fatto di rendere necessaria la continua mediazione fra le esigenze del reale e quelle delle diverse istanze psichiche.

Il ruolo acquisito nel gruppo permette di svolgere un’attività “lavorativa” favorendo l’uso e lo sviluppo di talenti e capacità individuali e lo scarico di energie libidiche.

Nei vari gruppi a cui aderisce l’adolescente porta, infatti, sia il bisogno di mettere alla prova la sua attività, che di verificare i suoi giudizi e valori attraverso il parere degli altri, sia il bisogno di sicurezza e protezione. In questo modo diminuisce la tentazione di restare fermi a modalità di comportamento infantili nel tentativo di recuperare la sicurezza derivante dalla protezione dei genitori.

Si ha invece un confronto con se stessi e gli altri (coetanei) continuo e costruttivo, che consente un innalzamento dell’autostima, che deriva dal verificare la propria coerenza tra comportamento e valori morali personali e giudizi, e che viene sostenuto dal gruppo dove trova conferma e rinforzo.

La contrapposizione critica al mondo degli adulti ed alle ideologie di altri gruppi deve avvenire nel confronto con l’altro e con le parti rifiutate di se stesso. Si costruisce così la propria visione del mondo e la propria modalità individuale di comportamento.

Anche Minuchin (1971) definisce questa fase come un periodo in cui aumenta la partecipazione del figlio adolescente al mondo esterno e si ridefinisce il suo rapporto con il mondo interno, così come il confine fra i due mondi.

Come sottolinea l’autore, se la famiglia non é abbastanza flessibile da accettare questo cambiamento, o se le necessità funzionali familiari non consentono una modificazione dei rapporti, il figlio produrrà un sintomo (disagio psichico).

Le famiglie che presentano questi problemi hanno un atteggiamento errato legato ad un eccessivo controllo sui figli (perché li considerano ancora bambini), o, al contrario, ad uno scarso controllo (perché li considerano troppo presto adulti).

In questa fase del ciclo vitale una risposta corretta richiede da parte della famiglia un aumento della flessibilità delle regole, una modifica della relazione genitori-figli ed una modifica della relazione fra i genitori come coniugi.

La modulazione di queste modifiche é molto delicata. Mc Goldrick e Carter ritengono che, la perentoria richiesta di indipendenza spesso effettuata dall’adolescente, non sempre sia vera. I genitori dovrebbero rispondere ad essa continuando a mantenere le regole, ma accettando una violazione delle stesse.

Essi dovrebbero, poi, mantenere sempre aperto il “contenitore – famiglia”, che, sebbene sia apparentemente spesso rifiutato con forza, é in realtà sempre molto rassicurante come porto sicuro per recuperare dopo le inevitabili frustrazioni.

L’adolescente, dunque, si muove in avanti alla ricerca di esperienze nuove che ne permettono la individuazione, ma continua a guardare indietro, dove trova la sicurezza della sua storia e delle sue radici. Questo movimento non si arresta con l’adolescenza ma continua per tutta l’età adulta. Perché la coppia genitoriale non sperimenti la cosiddetta sindrome del “nido vuoto” è fondamentale che la relazione di coppia si sia stabilizzata.

Quando i figli escono di casa, infatti, i genitori ritornano coniugi, ed è fondamentale aver preservato uno spazio della coppia. Ciò consentirà ai genitori di compiere quel lavoro di rielaborazione interna delle dinamiche familiari che anche loro, come i figli, dovranno affrontare.

Se la coppia non riesce a fare questa crescita o a vivere la sua crisi in se stessa, c’è il rischio che “triangoli” un figlio come distanziatore o separatore impedendone l’individuazione.

Il figlio, allora, rischia di diventare “contenitore” delle difficoltà dei genitori o una forma di realizzazione di questi ultimi, o, ancora, uno “schermo di protezione” delle loro aspirazioni.

Si assiste in questi casi a quella che Gianna Polacco-Williams (1997) ha definito il capovolgimento della relazione “contenitore/contenuto”.

Se da una parte è vero, come sostiene Bowlby (1988), che l’appartenenza costituisce una “secure base” per incamminarsi verso l’indipendenza, è indispensabile che i genitori non ostacolino il bisogno di autonomia e di autoaffermazione dell’adolescente, ma lo spingano in avanti nella realizzazione del sé.

Riportando il pensiero di Gaddini (1985), sul quale sarebbe interessante approfondire il discorso, ritengo che l’istanza di “appartenenza” e l’istanza di “separazione” siano le due coordinate entro cui ogni individuo sviluppa sé stesso, realizza, cioè, la propria individualità differenziandosi da quella che Bowen (1979) chiama “massa indifferenziata dell’io familiare”.

Come sostiene Gaddini,   mentre la madre resterà sempre la condizione dell’esistere, il ruolo del padre è quello di aiutare ciò che esiste a divenire.   In questo lavoro di crescita i due genitori devono diventare i collaboratori di queste forze propulsive, in una sorta di condivisione dei compiti. Perché il figlio possa crescere ed individuarsi, in conclusione, è opportuno che la famiglia si sia costituita su solide basi pur mantenendo in sé quella elasticità sufficiente che le consente di trasformarsi in coincidenza dell’individuazione dei figli. Perché ciò accada, e qui concludo il mio lavoro, ritengo indispensabile che i genitori abbiano nei suoi confronti, -per usare un’espressione di Francoise Doltò (1988)- “un desiderio casto”, acquistino, cioè, la consapevolezza che;

 non è la capacità fisica di procreare che rende gli adulti genitori,ma la capacità di amare i figli, rimanendo sostanzialmente liberi dal bisogno di possederli o di farne strumenti della propria riuscita.