a cura del prof. Emilio Esposito
Che cosa s’intende per relazione d’aiuto? Ognuno di noi si è trovato coinvolto in quella che definiamo essere una relazione d’aiuto: a tutti noi credo, infatti, capiti, che un membro della nostra stessa famiglia, un amico, un collega di lavoro, un ragazzo del gruppo che animiamo, uno studente a cui insegniamo, un fratello della comunità religiosa in cui viviamo esprima il desiderio di essere ascoltato ed attivato nelle risorse personali. Spesso queste persone non ci chiedono solo consigli, ma avanzano una richiesta più esigente che ci vede impegnati in dimensioni profonde del nostro essere per un incontro con l’altro che possiamo definire intimo ed autentico.
E’ stato scritto: “La relazione di aiuto ha molto in comune con le relazioni di amicizia, con le relazioni familiari, con le relazioni pastorali. Tutte quante sono dirette ad appagare bisogni umani basilari e, quando le si voglia ridurre nelle loro componenti essenziali, rivelano molte somiglianze (Brammer, 1973).
La relazione d’aiuto altro non è, in effetti, se non un tipo particolare di relazione umana … molte relazioni amicali, familiari, di vicinato sono relazioni di aiuto …L’aiuto non è dunque “monopolio” delle relazioni d’aiuto”. In tutte queste relazioni non siamo chiamati a risolvere il problema dell’altro o a sottrarglielo, ma ad offrire alla persona gli strumenti (consapevolezza e potenziamento delle proprie risorse, conoscenza di sé, comprensione del problema) per affrontarlo e tollerarlo.
Counseling e mediazione costituiscono le principali forme di “relazione d’aiuto”, intesa come il fornire un“aiuto attraverso la relazione”. Questo, a mio avviso, è un primo punto problematico sul quale vale la pena riflettere. Nel mondo sanitario l’aiuto, troppo spesso, non è attraverso la relazione ma attraverso “un’azione”, un “atto”. Il medico non cura parlando, non cura stando in relazione ma lo fa in due modi: o tramite la somministrazione di farmaci oppure agendo chirurgicamente.
Ci si trova quindi di fronte ad un problema d’impostazione, una logica, una forma mentis completamente diversa da quella che è centrata sulla relazione, sull’aiuto attraverso la relazione.Relazione deriva dal latino (res e azione), e significa portare una cosa insieme, una cosa nuova che è il Noi, non più l’Io o il Tu.
Che cosa s’intende per counseling?
Se è vero che ciascuno di noi, nel suo piccolo vissuto quotidiano, ha esperienze di relazione d’aiuto, è però anche vero che, nel momento in cui la richiesta di aiuto è rivolta ad un operatore psicosociale, e quindi ad un professionista, l’aiuto che ci si aspetta deve rispondere a dei criteri e capacità chiare e ben delineate che credo essere proprie di ciò che viene definito “counseling”.
Per counseling s’intende l’insieme di “interventi accomunati dall’intento d’offrire, a soggetti che presentano delle difficoltà e problemi di varia natura, una occasione, attraverso l’incontro con un’altra persona, di comprendere la propria situazione in modo più chiaro.
In tal modo sarà possibile aiutare il cliente ad affrontare, secondo le modalità che ritiene più proficue, le scelte o i cambiamenti connessi alle diverse fasi del ciclo di vita” (Erickson, 1996). Il counseling implica: · offrire un aiuto nell’esplorazione dei vari aspetti del problema; · fornire informazioni appropriate ed accurate; · dare suggerimenti e sostegno su come utilizzare tali informazioni.
Alla base del Counseling, cosi come lo intende Erikson, c’è quindi l’ “agevolare, piuttosto che l’offrire consiglio o costringere, il lavoro del cliente in modo che ne vengano rispettati i valori, le risorse personali e la personale capacità di autodeterminazione”.
Solo quando Counselor e cliente sono d’accordo sullo stabilire una relazione di Counseling, allora tale rapporto diventa veramente counseling, invece del semplice impiego delle tecniche di counseling. La pratica del Counselling comprende il lavoro con i singoli, le coppie, i gruppi, a cui ci si riferisce come clienti. Gli obiettivi variano al variare dei bisogni del cliente stesso. Counselling può quindi voler dire trattare questioni evolutive, problemi specifici, decisioni da prendere, crisi da superare, sviluppo della consapevolezza personale e miglioramento delle relazioni interpersonali.
Che cosa s’intende per mediazione?
Sfogliando alcuni tra i tanti vocabolari di italiano si legge: mediazione “attività di chi si interpone tra due o più persone per facilitarne le relazioni e gli accordi”; o ancora “azione svolta da terzi per il raggiungimento di un incontro e di un accordo…” E, al termine “mediatore“, “persona o ente che intervenga per determinare l’incontro e l’accordo di due parti”…”elemento determinante nello stabilire un rapporto di conciliazione o di compromesso “.
Nel vocabolario di latino “medium” sta ad indicare “ciò che sta nel mezzo” o anche “sforzo intermedio o interno”. Da tali definizioni emerge prima di tutto la necessità della presenza di un terzo a svolgere la funzione di mediazione e due finalità della stessa: “l’incontro” e “l’accordo”.
L’azione del mediare è sempre posta tra almeno due parti e il mediatore diviene un canale, una via di comunicazione preferita quando il rapporto è difficile.
Chi sta vivendo un conflitto sa bene quanto sia difficile staccarsi dal vissuto emotivo per instaurare un registro di razionalità che permetta di poter discutere del problema, il riferimento ad un terzo è quindi una garanzia, un mezzo appunto di comunicazione. Il terzo rappresenta l’istanza razionale, la possibilità di spostare il conflitto da un piano emozionale ad uno di possibile analisi ed elaborazione. Il tentativo di creare uno spazio, una prospettiva dalla quale poter vedere la cosa in modo diverso, un luogo virtuale nel quale potersi incontrare, riconoscendo che cosa sta succedendo e che cosa si sta giocando; la capacità di interrompere la catena delle reazioni emotive; di separarsi dalle emozioni per poterle riconoscere (ciò spiega il perché la mediazione familiare è spesso considerata un intervento specializzato di counseling).
Analogie e differenze
Nel counseling e nella mediazione si parte dal concetto che le persone con cui si lavora non siano “patologiche” ma stiano attraversando un periodo particolare della propria vita in cui hanno bisogno di aiuto per essere resi di nuovo consapevoli delle proprie risorse, valori, e potenzialità. Counseling e mediazione mostrano affinità sia nei modelli teorici che nelle tecniche di applicazione, e talvolta sembrano addirittura sovrapporsi. I due approcci sono centrati sulla definizione di un problema o, al massimo, su alcuni problemi. Le finalità sono rigidamente circoscritte ad un area, differentemente dagli approcci psicoterapici, che non presentano generalmente limiti definiti.
Nel counseling il cliente si rivolge alla figura del counselor per ottenere un aiuto nel trovare una soluzione ad un problema specifico. Nella mediazione ci si rivolge allo specialista per tentare la risoluzione dei conflitti e la riorganizzazione delle relazioni interrotte.
Quindi, nel counseling e nella mediazione sono i clienti che portano i loro problemi, li espongono e decidono di lavorarci insieme agli specialisti, non cercano una risposta ad un malessere generale non definito come avviene quando si decide di intraprendere una psicoterapia.
La differenza fra mediazione e counseling è che nella mediazione, in particolar modo in quella familiare, l’obiettivo fondamentale è spesso la stesura di un accordo scritto; nel counseling, invece, tale accordo serve principalmente per chiarire i temi sul quale si intende lavorare e anche per rinforzare l’impegno preso dal cliente. Un’altra caratteristica comune del counselor e del mediatore è quella di condurre il proprio focus di azione, di percezione e di operatività verso il futuro.
Una ricerca introspettiva verso il passato non può che essere fuorviante, non siamo in terapia, i nostri sforzi devono concentrarsi alla risoluzione del problema evincendo, enucleando, ed enfatizzando le risorse attuali, le uniche che ci permetteranno il raggiungimento dell’obiettivo.
Ciò che contribuisce notevolmente alla creazione di un rapporto di fiducia, in entrambi i casi, è l’ascolto empatico da parte dell’operatore. Rollo May, nel suo libro “L’arte del Counselling“, ci spiega che “empatia è la traduzione della parola utilizzata dalla psicologia tedesca Einfuhlung, letteralmente tradotta come sentire dentro. Einfuhlung, a sua volta, deriva dal greco pathos che indica un sentimento forte e profondo simile alla sofferenza.
Il parallelo con la parola ’simpatia’ è evidente, ma mentre simpatia indica un “sentire con”, e facilmente induce al sentimentalismo, empatia significa capire il “punto di vista dell’altro per stabilire un contatto con la sua realtà esistenziale, pur rimanendo nella propria”.
E’ perciò importante che l’operatore resti sempre ben consapevole delle proprie reazioni emotive pur non lasciandosi guidare da esse. Dinamiche relazionali, ruoli e aspettative Fondamentale è quindi, per quanto ci riguarda, il momento dell’accoglienza, ossia la disponibilità di un operatore competente alla costruzione di un dialogo con l’altro come persona, e che, lungi dal limitarsi alla mera richiesta specifica, implica la conoscenza dell’altro, garantendogli uno spazio di ascolto e di contenimento.
Come prima accennato, spesso, nella presa in carico di un cliente, l’operatore assume un ruolo attivo e direttivo, che, di conseguenza, pone il cliente in un ruolo passivo e, talvolta, anche consapevolmente oppositivo. Si può aiutare il cliente ad essere collaborativo ed attivo solo rinunciando (o minimizzando) queste caratteristiche, costruendo realmente uno spazio relazionale che offre la possibilità, al cliente, di comunicare (communĭcāre, dal latino: far comune ad altri ciò che è nostro) liberamente, all’operatore di entrare in empatia col cliente.
Uno “spazio relazionale” sufficientemente buono, è quello in cui: · c’è tempo, ossia è evidente la disponibilità all’ascolto; ·le domande sono seguite dalla necessaria pausa di riflessione; ·l’attenzione è reale, riscontrabile nell’atteggiamento corporeo, nello sguardo attento; · c’è la sospensione del giudizio da parte dell’operatore; ·non si viene anticipati nell’esposizione del proprio pensiero; ·il linguaggio è chiaro e diretto; ·si ha la rassicurazione sulla tutela della privacy e del segreto professionale.
Ciò incoraggia il cliente a: ·comunicare in modo franco la natura del suo problema; ·ad esplorarlo in modo adeguato, stimolato dalle domande e dalle osservazioni dell’operatore; ·ad esplicitare i suoi timori ed aspettative.
L’operatore consapevole della stretta relazione tra livello somatico, psichico e sociale: ·non identifica il cliente col suo problema; ·evita le scissioni; ·sostiene, invece, i processi integrativi. Rispondere in modo immediato alle richieste, proponendo esclusivamente una prescrizione o particolari indagini diagnostiche, non tiene conto del fatto che il cliente non è sempre ben consapevole del vero motivo che lo ha spinto a chiedere aiuto; da ciò deriva che l’informazione fornita può essere insufficiente, che l’eventuale invio può essere inadeguato e, quindi, che il risultato finale sia deludente.Non è facile aiutare una persona senza conoscere bene la natura delle sue reali preoccupazioni ed ignorando quali siano le sue attese.
Permettere al cliente di prendere l’iniziativa nell’intervista, produce del materiale prezioso: – il percorso di esplorazione porta ad individuare i punti significativi; – le incertezze possono cominciare ad essere superate; – il cliente arriva man mano a definire il suo problema, mantenendo aperto il ventaglio delle opportunità. Una buona relazione di aiuto, quindi, implica il saper utilizzare le proprie capacità di accoglienza, ascolto, empatia per costruire “una relazione efficace, qui ed ora, con l’altra persona, coinvolgendola in un processo relazionale sano e sanante”.
E’ all’interno di una relazione, quindi, che si può attuare il cambiamento desiderato dalla persona che si rivolge all’operatore; tale cambiamento inoltre può avvenire solo se chi chiede aiuto è coinvolto da protagonista in un processo relazionale nel quale sperimenta (qui ed ora) le proprie risorse e la propria capacità di instaurare nuove relazioni interpersonali e di assumersi in modo nuovo, e forse inaspettato, impegni e responsabilità.
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