a cura del prof. Emilio Esposito :
Counselor Sistemico Relazionale
Il Counselling
Che cosa si intende per counseling? Il termine non ha un corrispondente nella lingua italiana. Il counseling si è sviluppato negli anni settanta come strumento di lavoro in ambito psicosociale. Con esso si indica un processo di interazione tra due persone, di cui una è in difficoltà, processo orientato a far prendere coscienza della propria situazione in modo da poterla gestire fino a giungere alla risoluzione della stessa. Si tratta quindi di un intervento che favorisce il cambiamento e sollecita le risorse del soggetto stesso.
Si differenzia da altri tipi di intervento, orientati piuttosto a fornire suggerimenti o risposte, che richiede, in chi aiuta, disposizione e abilità specifiche. “Il processo di counseling enfatizza l’importanza dell’autopercezione, dell’autodeterminazione e dell’autocontrollo: il risultato finale è misurabile attraverso il “grado in cui si riesce a rendere una persona capace di azioni razionali e positive, a renderla più soddisfatta, più in pace con se stesso, più capace di condurre una vita serena e socialmente integrata” (Zavallone, 1977)” (Folgheraiter F., in Mucchielli, 1987). In quest’ultimo decennio l’aumento di patologie fisiche ad ampi risvolti psicosociali, quali l’AIDS, hanno contribuito ad individuare il counseling quale strumento di lavoro anche in ambito sanitario.
Proprio a fronte delle problematiche poste dall’ AIDS l’ O.M.S. ha suggerito il counseling quale modalità di approccio sia in ordine alla prevenzione che alla cura definendolo come “un processo di dialogo e di interazione duale attraverso il quale il consulente aiuta il consultante a prendere delle decisioni e ad agire di conseguenza, oltre a fornire una accurata e attenta informazione ed un sostegno psicologico adeguato. Il counseling è diretto ad aiutare il paziente in un momento di crisi, ad incoraggiare cambiamenti nel suo stile di vita, se necessario, proponendo azioni e comportamenti realistici, ed è volto a metterlo in grado di accettare le informazioni ansiogene favorendo l’adattamento alle relative implicazioni” (World Health Administration, 1992).
Come non è difficile rilevare, vi sono affinità con la relazione di aiuto, tema già affrontato nei precedenti articoli. Si può dire che la relazione d’aiuto si concretizza, prende forma, nel counseling di cui in questo articolo si cerca di precisarne gli aspetti specifici, oltreché discutere se tale intervento sia o meno di pertinenza infermieristica. Infine restano da affrontare le resistenze a questo come ad altri apprendimenti e la contestuale richiesta da parte dell’operatore infermiere di attenzione e supporto psicologico per sé, come descritto in premessa.
Il Counseling in ambito sanitario
L’obiettivo principale del counseling è dunque quello di fornire il supporto necessario a fronteggiare la vasta gamma di aspetti psicosociali connessi alla malattia. Non è necessariamente specialistico, cioè non è di esclusiva pertinenza degli operatori di area psicologica. Può essere attuato, a partire da problemi di ordine fisico, da operatori sanitari; si qualifica come counseling se tiene conto e comprende le differenti variabili in gioco. L’ambito teorico in cui si è sviluppato il counseling non è quello psicosomatico, nella accezione che considera psiche e soma strettamente interdipendenti e gli aspetti psicologici l’essenza della malattia.
Come afferma U. Galimberti. “Essere ammalato significa, infatti, distogliere la mia intenzionalità dal mondo… per raccoglierla sul mio corpo, anzi sulla malattia che non consente più al mio corpo di pro-gettarsi nel mondo come prima accadeva. Tutto ciò, lo ripetiamo, non è “conseguenza” della malattia, ma sua “essenza”. Il capovolgimento dell’ordine della presenza in occasione della malattia, l’incapacità di inserirsi nel mondo e di abitarlo come lo si abitava prima, la vita sempre più ridotta e l’esistenza sempre più contratta sono eventi che non possono essere concepiti come “conseguenze psichiche” di disturbi somatici, perché il principio di causalità è una relazione determinata dove l’effetto è proporzionato e omogeneo alla causa, mentre, in presenza di una malattia dei bronchi, dello stomaco, del cuore, è impossibile circoscrivere un effetto, perché disturbato è tutto il mio modo di essere al mondo, un modo più debole, più apprensivo, più pauroso..” (Galimberti U., 1990).
Gli autori che sostengono l’importanza del counseling in ambito sanitario sono invece piuttosto inclini a ritenere che le variabili psicologiche siano reazioni alla malattia. Tuttavia una corretta applicazione del counseling può aiutare i soggetti interessati a cogliere l’interdipendenza di questi due aspetti e vivere la propria esperienza di disagio e di malattia in modo unitario e, se opportunamente guidati (ed è qui che si distingue l’orientamento epistemologico dell’operatore e si rivela l’importanza del suo orientamento terapeutico), può giungere a coglierne pienamente il senso per e nella propria personale esistenza. Al counseling si tende ad attribuire obiettivi specifici, a seconda del problema/malattia/disagio per cui si applica, ed è prevalentemente di breve durata. Se a lungo termine, il counseling si identifica con il trattamento psicoterapeutico, qualsiasi sia l’approccio con il quale viene effettuato, ed è di competenza dello specialista di area psicologica o psichiatrica.
A chi è rivolto il counseling?
Esso va offerto a tutte le persone in difficoltà e, nelle strutture sanitarie, in tutte quelle situazioni esitate in malattie, per le quali è necessario una modificazione, talvolta radicale, di comportamento e un riadattamento emotivo e/o am-bientale. Si intravvede cioè come necessaria una ristrutturazione dello stile di vita e delle relazioni che il soggetto intrattiene, dei ruoli che ricopre e così via. Oltre alla già citata AIDS, si possono facilmente individuare altre situazioni altamente perturbanti che necessitano di attività di counseling e che, nonostante siano storicamente meno recenti, non hanno finora goduto, nelle istituzioni deputate alla cura, di un counseling di accompagnamento.
Penso al cancro, alle malattie croniche e invalidanti; penso all’infarto miocardico o agli esiti di traumi. Per quanto riguarda i familiari, soggetti per cui il counseling si rivela molto utile, penso ai genitori di bambini a cui viene diagnosticata una malattia grave o addirittura mortale, ai familiari dei malati di cancro o di AIDS e così via. Molte di queste situazioni sopraccitate possono richiedere il supporto dello specialista psicologo clinico, formato alla psicoterapia. Ma questo intervento necessita di una maturazione raramente presente nel soggetto al momento dell’accadimento, senza peraltro considerare che la presenza di questo specialista non è ancora abituale nelle strutture sanitarie.
Nel momento in cui il soggetto si confronta con il disagio fisico è nel corpo che sta incontrando la sua sofferenza ed è trattenuto nel corpo dal dolore che accompagna l’esperienza di malattia. Il suo interlocutore non può quindi essere in prima istanza che l’operatore riconosciuto competente in questo ambito e da cui vengono effettuate le cure. Perciò non c’è dubbio che, quando il male è sperimentato sul piano fisico, il compito di effettuare counseling è prevalentemente dell’operatore sanitario, in primo luogo del medico curante. Sono necessarie alcune precisazioni. Spesso in ambito sanitario si ritiene di aver svolto attività di counseling quando si forniscono informazioni.
Ma esso, come già visto, non si riduce alla pura e semplice informazione. Consiste piuttosto in un radicale cambiamento di atteggiamento verso il malato e la sua malattia, il conseguente abbandono del modello unidirezionale da operatore a malato e un ampliamento dell’attenzione che comprenda la rilevanza emotiva che ogni contenuto, anche solo informativo, contiene. Richiede cioè attenzione da parte dell’operatore sanitario al mondo soggettivo del malato e al proprio, possibile solo se questi si sente chiamato in causa. Solo così il counseling agisce; non basta cioè una formazione teorica alle tecniche del colloquio, ma è necessaria la capacità di ascolto e la consapevolezza della risonanza emotiva che ha, per sé e per l’altro, ciò che si sta per comunicare, trattare, curare e così via.
“Bisogna imparare – scrive G. Sordelli- a vedere l’altro come in un filmato, e non come in una istantanea, saperne cogliere in maniera creativa le nuove possibilità ed i lati non immediatamente accessibili. Si ascolta nel “qui e ora” senza però tralasciare gli aspetti dinamici e storici della persona che si ha di fronte in quel momento. Inoltre, ascoltare un altro mette in gioco diverse parti dei due interlocutori; si entra in relazione non solo con la parte della personalità più matura ed organizzata, ma anche attraverso le parti più infantili o problematiche o lacunose. È un continuo scambio con continui aggiustamenti, alla ricerca del livello che consenta di aumentare l’accessibilità degli scambi in termini di significati e di senso” (Sordelli G., 1993).
Il ruolo dell’infermiere
Anche l’infermiere può utilmente utilizzare il counseling benché il suo ruolo sia meno definito e ancor più lasciato all’iniziativa personale. È un ruolo a mio avviso ancor più difficile perché meno circoscritto e tematizzato, ma che affiora dalla quotidianità e dalla continuità del rapporto col malato. È un ruolo che può essere svolto solo se l’infermiere professionale accetta questo modo più nascosto e discreto, ma non meno significativo e importante che porta il soggetto a una progressiva presa di coscienza e prepara il terreno a interventi più mirati, talvolta effettuati da altri operatori.
L’immagine che mi viene è quella di chi toglie uno alla volta i veli: sono le informazioni su ciò che si sta compiendo, l’interesse e l’attenzione orientata ai segnali del corpo, il chiamare per nome ciò che soggettivamente il soggetta sperimenta su di sé, ma a cui spesso non sa dare un significato, un nome, e così via. È un ruolo che richiede anche una sinergia con quello degli altri operatori, del medico in primo luogo, sinergia ancora troppo raramente intenzionalmenete ricercata e troppo spesso scambiata con la sudditanza e la passiva esecuzione delle prescrizioni.
Vi sono poi compiti, quali quello preventivo ed educativo, per i quali il counseling è lo strumento più adeguato. È strumento utile anche nel corso del processo terapeutico, a cui l’infermiere collabora, nelle situazioni in cui si precisa nel soggetto in cura un interrogativo, si presenta un problema, o si rende necessario prendere una decisione. Il counseling è lo strumento per elaborare, sistematizzare, ristrutturare, tutto ciò; renderlo comprensibile e accettabile.
Altrettanto dicasi per il rapporto con i parenti, per gran parte di fatto gestito dagli infermieri, spesso ancor più problematico e importante di quello con lo stesso malato. Ma anche qui ci si trova a cimentarsi con un territorio poco definito, non riconosciuto, lasciato all’intuito, al buon senso e all’iniziativa dei singoli. Il counseling obbliga alla costatazione che tutta la formazione infermieristica, oltre che essere per gran parte teorica, è improntata al “fare”.
L’infermiere è ben lontano dal “pensarsi” come un operatore che usa il colloquio come strumento di lavoro; ma, anche se lo fosse, non è allenato alla conduzione del colloquio e alla gestione delle espressioni emotive della sofferenza, dei vissuti di ansia e di depressione che possono emergere e tende a rifuggire da tale compito. La “parola che cura” come forma di accompagnamento della cura del corpo è il punto di arrivo di una ricerca che porta a superare “l’uomo dimezzato” ma anche “l’infermiere dimezzato”, incapace di instaurare con i propri malati/utenti relazioni umane significative e di trarne da esse beneficio.
Apprendere il counseling
È questo il titolo del libro di Mucchielli R., organizzato come un manuale pratico all’autoformazione, in cui l’autore traduce i principi rogersiani che ispirano il counseling. In prefazione il curatore, F. Folgheraiter, dice: ” Mucchielli è ben consapevole che le abilità di aiuto, di cui sopra , non si formano semplicemente per via di conoscenza teorica: un conto è sapere (conoscere razionalmente) quali siano o come si articolano le varie abilità di aiuto (ma il più delle volte, in realtà, è dato conoscere solo astratte teorie di tipo eziologico o generalissimi modelli di intervento); un altro conto, invece, è di saperle, queste abilità, effettivamente esercitare. Fra il “sapere” e il “saper fare” vi è uno stacco, un vero e proprio salto logico, che va colmato con apprendimenti ad hoc” (Folgheraiter F., in Mucchielli, 1987).
Quali sono questi apprendimenti ad hoc? Mucchielli ci prova appunto con una serie di esercizi pratici in cui l’operatore impara ad osservarsi e ad osservare ciò che viene messo in gioco nella relazione. Si ripropone inevitabilmente la necessità di imparare ad ascoltarsi e ad ascoltare, attitudine estranea alla professione sanitaria se è tutta improntata sul “fare”. Vi sono poi metodologie di apprendimento che si sono dimostrate più efficaci quali il role playing. Sono cioè quelle metodologie, di gruppo, che danno la possibilità di implicarsi personalmente consentendo esperienze di interazione e prevedendo momenti di osservazione e analisi dei comportamenti.
Ed è a queste forme di apprendimento a cui è bene fare ricorso. perché mai l’infermiere professionale dovrebbe fare la fatica di affrontare un nuovo apprendimento e per di più un apprendimento su di sé?
È forse giunta l’ora che ciò che chiamiamo sanità non deprima o addirittura non opprima l’uomo che dice di voler curare e non mortifichi il suo corpo considerandolo solo una cosa. Come afferma Galimberti U.” …nel corpo-cosa che la scienza descrive ogni volta che parla dell’organismo e delle sue funzioni io non mi riconosco perché è un corpo che non mi rivela, non mi rappresenta, non mi esprime” (Galimberti U., 1990). L’infermiere, come ogni operatore delle professioni sanitarie, ha oggi, se vuole, il privilegio di partecipare al risveglio del “corpo aurorale”, del corpo cioè come portatore e disvelatore del mondo emozionale, come era conosciuto dalla medicina primitiva. “Solo nella prospettiva aurorale – afferma Morelli R. – il corpo “entra” nella psiche… Quanto più il tessuto analogico, quanto più il simbolo è ridotto alla portata dell’io, tanto più le immagini archetipiche della libido prorompono per vie “insospettabili”..; la malattia può essere così intesa come un drammatico allargamento di campo, come un linguaggio fabulato e mitologico, come mitologema, risposta a un pensiero troppo orientato sull’onnipotenza dell’IO, conferitagli dalla Weltanchaung attuale. (Morelli R., 1990). È un privilegio, ed è anche un’occasione per sperimentare quanto il lavoro continuo su di sé e sugli altri rappresenti un premio e non solo una fatica, premio che consiste nel far affiorare le nostre e le altrui parti creative.
Bibliografia
– Galimberti U., Psicosomatica, un errore seducente, in Riza Scienze, n. 40, settembre 1990 – Morelli R., Dal corpo soggetto… al corpo universo, in Riza Scienze, n. 40, settembre 1990 – Morelli R., Dal corpo soggetto… al corpo universo, in Riza Scienze, n. 40, settembre 1990 – Mucchielli R., Apprendere il Counseling, ed. Erickson, Trento, 1987 – Sordelli G., L’operatore e l’ascolto, in Animazione So-ciale, n. 8/9, 1993 – World Health Organisation, Guidelaines for Counseling about HIV infection and disease, Genève, 1990 Maria Assunta Vicini |
Tratto da: Nursing Oggi n. 1, 1998, pp. 66-69 |